Enrico Berlinguer moriva a Padova l’11 giugno 1984. Oggi lo celebrerà anche chi ha tradito i suoi ideali: eccoli

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Il 7 giugno 1984 a Padova il segretario del Pci Enrico Berlinguer durante un comizio accusa un malore. Non si riprenderà più, morendo dopo un’agonia di 4 giorni, a 62 anni (Ansa)
Il 7 giugno 1984 a Padova il segretario del Pci Enrico Berlinguer durante un comizio accusa un malore. Non si riprenderà più, morendo dopo un’agonia di 4 giorni, a 62 anni (Ansa)

Trentacinque anni fa, l’11 giugno 1984, moriva a Padova Enrico Berlinguer. Qualche giorno prima, il 7 giugno, durante il comizio conclusivo della campagna per le elezioni europee, aveva avuto un gravissimo malore. Testardamente, con la passione che lo distingueva, aveva concluso il suo intervento con queste ultime parole: “ … compagni … lavorate tutti … casa per casa. Azienda per azienda, strada per strada, dialogando coi cittadini … con la fiducia … che … per quanto abbiamo fatto … per le proposte che presentiamo, per quello che siamo stati e siamo, è possibile conquistare nuovi e più vasti consensi alle nostre liste, alla nostra causa che è la causa della pace, della libertà, del lavoro, del progresso della nostra nazione … ”

Ogni anno molti di quelli che, in tutti questi anni, hanno tradito i suoi ideali politici e morali, si affretterano a ricordarlo per dimostrarsi suoi eredi. Lo faranno quei dirigenti dell’ex PCI (a partire da Napolitano) che lo hanno osteggiato fino alla sua morte dimostrandosi distanti anni luce dal ragionamento e dalle convinzioni di Berlinguer, oggi come allora. Lo faranno esponenti del PD ormai makibconicamente schierato da quella parte che, per valori e principi anche morali (non certo moralistici), non ha nulla a che fare con la storia, l’insegnamento e il comportamento di Enrico Berlinguer.

Ci sarà molta ipocrisia in queste “celebrazioni”. Un’ipocrisia condita da falsità che risulterebbe, proprio a Berlinguer, intollerabile. Tutti si affanneranno ad apparire tristi nel ricordo di un grande uomo che aveva una statura politica e morale assolutamente non comparabile rispetto all’ostentato nanismo degli attuali personaggi che affollano il desolante scenario della politica italiana.

Si abbia coscienza che l’adeguamento al “pensiero unico” (sarebbe forse più corretto chiamarlo “pensiero miserabile”) di tutti quei politicanti che invadono da tempo le televisioni, i cosiddetti “social network”, i giornali e li riempiono di pericolosi discorsi pieni di cattiveria, arroganza e simboli religiosi sventagliati durante comizi sempre gridati, di tutti quelli che vogliono limitare spazi di democrazia, di accoglienza, di solidarietà e di giustizia con la loro miserabile necessità di comparire comunque e ovunque, di quelli che ostentano la propensione alla corruzione (i più o meno recenti scandali la dimostrano chiaramente), sono caratteristiche che nulla hanno a che fare con l’onestà e la passione politica di Enrico Berlinguer.

Dopo la morte di Berlinguer hanno trionfato gli “altri”, i suoi nemici, chi lo combatteva più o meno apertamente. Hanno trionfato i malfattori e i truffatori, gli evasori, quelli che occupano le istituzioni, quelli che hanno trasformato i partiti in comitati d’affari, quelli che “fanno politica” come un “mestiere” che serve ad accumulare ricchezze impensabili, quelli che urlano slogan ad effetto per nascondere l’inesistenza di un progetto di trasformazione del modello di sviluppo e della società. Hanno trionfato gli “altri” che hanno divorato qualsiasi cosa rendendo l’Italia ben peggiore di quanto paventava Enrico Berlinguer nella famosa intervista sulla “questione morale”.

E, allora, cerchiamo di non prestare attenzione alle vuote celebrazioni di chi tenta di sfruttare il ricordo di Enrico Berlinguer per i propri miseri scopi. Ricordiamolo, invece, con le sue parole, con i suoi scritti, con quello che ci ha insegnato. Forse capiremmo che una Politica onesta è stata possibile nel nostro paese. Una Politica seria e “nobile”. La Politica di un grande comunista italiano. Perché questo era Enrico Berlinguer.

Diceva Berlinguer:

“Primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità.” 

”Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.”

“La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano.”

 

“Noi restiamo convinti che per rinnovare noi stessi e spingere gli altri a rinnovarsi dobbiamo mantenere ben netti e riaffermare i caratteri che ci contraddistinguono e ci fanno diversi. Bisogna infatti che, in linea di partenza, sia dispersa ogni illusione di una nostra possibile resa o collusione od omertà, presente e futura, verso quei metodi di gestione tra i partiti e tra questi e il governo e le istituzioni e la vita economica e la società, fino alle degenerazioni che stanno corrodendo le fondamenta della nostra repubblica.”

“La lotta, la pressione di massa saranno sempre necessarie. Certo si può immaginare un mondo nel quale la politica si riduca solo al voto e ai sondaggi; ma questo sarebbe inaccettabile perché significherebbe stravolgere l’essenza della vita democratica.” 

“Noi comunisti siamo stati e dobbiamo essere i primi assertori di una politica di rigore, di serenità e di severità in ogni campo: nella vita economica e sociale, nella convivenza civile, nello studio e nel lavoro, nell’attività dello stato e dei suoi apparati, nel funzionamento delle istituzioni democratiche e, non dimentichiamolo, nella vita dei partiti. Ma severità e rigore è possibile esigerli e ottenerli soltanto se a loro fondamento e come loro obiettivo stanno il progredire della giustizia sociale e il compiersi di un rinnovamento.” 

“La verità è che ciò che ci si rimprovera oggi, come sempre, è che un partito del movimento operaio qual è il PCI non ha rinunciato a perseguire l’obiettivo e a lottare per un  mutamento radicale della società. Si vorrebbero partiti di sinistra che di fatto si accontentano di limitare la loro azione a introdurre qualche correzione marginale all’assetto sociale esistente, senza porre mai in discussione e prospettare una sistemazione profondamente diversa dei rapporti che stanno alla base della struttura economica e sociale attuale. La principale diversità del nostro partito rispetto agli altri partiti italiani, oltre ai requisiti morali e ai titoli politici che noi possediamo e che gli altri stanno sempre più perdendo, sta proprio in ciò: che noi comunisti non rinunciamo a lavorare e a combattere per un cambiamento della classe dirigente e per una radicale trasformazione degli attuali rapporti tra le classi e tra gli uomini. Nella direzione indicata da due antiche e sempre vere espressioni di Marx: che non rinunciamo a costruire una ‘società di liberi ed uguali’, non rinunciamo a guidare la lotta degli uomini e delle donne per la ‘produzione delle condizioni della loro vita’. L’obiezione che ci viene fatta è che questo nostro finalismo sarebbe un modo di voler imporre alla storia una destinazione. No, questo è il modo in cui noi stiamo nella storia, è la tensione e la passione con cui noi agiamo in essa, è la speranza indomabile che ci anima in quanto rivoluzionari.”

“Non mi è accaduto, e questa la considero la più grande fortuna della mia vita, di seguire quella famosa legge per la quale si è rivoluzionari a 18, 20 anni e poi si diventa via via liberali, conservatori e reazionari. Io conservo i miei ideali di allora.”

“Attraverso alcune delle «riforme» di cui si sente oggi parlare si punta a piegare le istituzioni, e perciò anche il parlamento, al calcolo di assicurare una stabilità e una durata a governi che non riescono a garantirsele per capacità e forza politica propria. Ecco la sostanza e la rilevanza politica e istituzionale della «questione morale» che noi comunisti abbiamo posto con tanta decisione. Anche la irrisolta questione morale ha dato luogo non solo a quella che, con un eufemismo non privo di ipocrisia, viene chiamata la Costituzione materiale, cioè quel complesso di usi e abusi che contraddicono la Costituzione scritta, ma ha aperto anche la strada al formarsi e al dilagare di poteri occulti eversivi – la mafia, la camorra, la P2 – che hanno inquinato e condizionato tuttora i poteri costituiti e legittimi fino a minare concretamente l’esistenza stessa della nostra Repubblica. Di fronte a questo stato di cose, di fronte a tali e tanti guasti che hanno una precisa radice politica, non si può pensare di conferire nuovo prestigio, efficienza e pienezza democratica alle istituzioni con l’introduzione di congegni e meccanismi tecnici di dubbia democraticità o con accorgimenti che romperebbero formalmente l’equilibrio, la distinzione e l’autonomia (voluti e garantiti dalla Costituzione) tra Legislativo, Esecutivo e Giudiziario, e accentuerebbero il prepotere dei partiti sulle istituzioni.”

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Giorgio Langella
Giorgio Langella è nato il 12 dicembre 1954 a Vicenza. Figlio e nipote di partigiani, ha vissuto l'infanzia tra Cosenza, Catanzaro e Trieste. Nel 1968 il padre Antonio, funzionario di banca, fu trasferito a Lima e lì trascorse l'adolescenza con la famiglia. Nell'ottobre del 1968 un colpo di stato instaurò un governo militare, rivoluzionario e progressista presieduto dal generale Juan Velasco Alvarado. La nazionalizzazione dei pozzi petroliferi (che erano sfruttati da aziende nordamericane), la legge di riforma agraria, la legge di riforma dell'industria, così come il devastante terremoto del maggio 1970, furono tappe fondamentali nella sua formazione umana, ideale e politica. Tornato in Italia, a Padova negli anni della contestazione si iscrisse alla sezione Portello del PCI seguendo una logica evoluzione delle proprie convinzioni ideali. È stato eletto nel consiglio provinciale di Vicenza nel 2002 con la lista del PdCI. È laureato in ingegneria elettronica e lavora nel settore informatico. Sposato e padre di due figlie oggi vive a Creazzo (Vicenza). Ha scritto per Vicenza Papers, la collana di VicenzaPiù, "Marlane Marzotto. Un silenzio soffocante" e ha curato "Quirino Traforti. Il partigiano dei lavoratori". Ha mantenuto i suoi ideali e la passione politica ed è ancora "ostinatamente e coerentemente un militante del PCI" di cui è segretario regionale del Veneto oltre che una cultore della musica e del bello.