Facebook contro Trump tra libertà di espressione e censura. “Agorà. La Filosofia in Piazza”: ciò che si può dire e ciò che non si deve dire

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Donald Trump e Facebook
Donald Trump e Facebook

Alla luce di alcuni recenti episodi accaduti in Italia, c’è una questione sulla quale vorremmo riflettere, una questione che va al di là della libertà di espressione e, nel nostro caso, della libertà di stampa, intese come diritti che devono essere sempre salvaguardati, se vogliamo vivere all’interno di una società democratica e pluralistica, condannando qualsiasi forma di censura.

È notizia di qualche giorno fa la definitiva cancellazione da parte di Facebook, che è il più potente mezzo di comunicazione di massa attuale, del profilo di Donald Trump a seguito dell’episodio di Capitol Hill, con la motivazione che le sue esternazioni abbiano costituito un serio rischio di violenza per la società americana.

Ora, ciò che sta al fondo della decisione dei vertici di Facebook è legato all’uso del linguaggio, a quelle che sono le conseguenze che un certo uso delle parole inevitabilmente genera nel contesto sociale e tutto ciò, deve essere specificato chiaramente, al di là della connessione che le stesse parole o i fatti abbiano con la verità.

Il rapporto tra i fatti e la verità, che resta un tema molto caldo sia per le discipline giuridiche sia per la scienza sia per le scienze umane, le quali riflettono ancora sulla possibilità che un soggetto possa percepire univocamente qualcosa come “la verità”, tale rapporto, si diceva, segue una strada diversa a seconda che si voglia procedere verso il suo accertamento, nel qual caso si deve compiere un percorso all’indietro, alla ricerca di dettagli e prove, cui dare comunque un significato univoco in vista della conferma di una “ipotesi” veritativa, oppure si voglia guardare avanti, all’importanza che le parole pronunciate da un determinato soggetto assumono in relazione alle conseguenze che potrebbero avere, assumendosene la totale responsabilità etica, dopo un profondo processo di discernimento. Da questo angolo visuale, come cittadini, più o meno influenti, ma anche come organi di stampa, dovremmo sempre prestare una certa attenzione al linguaggio che usiamo pubblicamente, nella convinzione e nella completa responsabilità, tra l’altro, che mediante il linguaggio si costruisce la realtà concreta nella quale vivono tutti quanti.

Il fatto che un organo di Facebook, noi diremmo quasi di ordine etico, si assuma la responsabilità di ammettere che nelle parole di Trump ci sia la possibilità di innescare meccanismi violenti è il segno del riconoscimento che esiste un limite oltre il quale anche la politica dei partiti non può spingersi, che generare odio e violenza nella realtà non è precisamente un segno di civiltà e cultura, che questo tipo di narrazione non è funzionale alle dinamiche delle politiche sociali e alla solidarietà umana e nazionale, che deve rimanere sempre l’obiettivo primario.

E, allora, a nostro avviso c’è una differenza sostanziale di approccio alla costruzione della realtà tra il modo di vedere degli anglosassoni e il nostro e, di conseguenza, anche nella traduzione del “politically correct”. Tutto potrebbe essere riconducibile alla distinzione che gli anglosassoni stabiliscono tra il significato di Policy, che indica una mentalità assunta dal singolo soggetto o, più spesso, dalla collettività, tesa a produrre cambiamenti positivi nella prassi concreta della vita quotidiana di tutti, e il significato delle Politics, che indicano più espressamente le appartenenze politiche, la militanza, le azioni legate all’ideologia di un determinato partito o schieramento.

Ora, le policy, che hanno a che fare con l’emancipazione delle persone sia come singoli sia come gruppi (empowerment), non vengono messe in discussione, sono il segno dell’avanzamento della civiltà e non sono assolutamente sottoposte alla discrezionalità dei partiti. Di conseguenza, il politically correct implica una correttezza rispetto ad un riconoscimento pubblico che spetta di diritto ai soggetti che hanno lottato per ottenere un avanzamento della propria posizione sociale e umana e chi non riconosce questa correttezza non è semplicemente scorretto o ironico, ma è un troglodita ridicolo e nessun politico dovrebbe avallarle, nemmeno un ex presidente degli Stati Uniti, come riconosce Facebook USA.

Ecco, noi in Italia confondiamo spesso il significato delle Policy necessarie per l’emancipazione delle persone con quello delle Politics e pensiamo che poter insultare, odiare o deridere gli omosessuali, le persone di colore, i cinesi, gli ebrei e tutte le minoranze sia l’espressione di una legittima opinione, tanto più che anche i nostri politici e giornalisti si esprimono in questo modo, addirittura rivendicando in prima serata da Porta a Porta, come fa il 4 maggio Annalisa Chirico, autrice di un interessante bestseller dal titolo Siamo tutti puttane. Contro la dittatura del politicamente corretto[1], affermando che in una democrazia liberale debba essere garantito anche il diritto all’odio, per evitare di avere un pensiero unico.

Ecco, forse è proprio per questa incapacità etica di prevedere le conseguenze delle parole pronunciate, che era un argomento particolarmente caro al sociologo Max Weber, in un testo che portava come titolo La politica come professione[2], che facciamo ancora fatica a distinguere con chiarezza tra politici, trogloditi e comici e, spesso, ce li ritroviamo assommati nelle medesime persone tra i nostri rappresentanti.

[1] A. Chirico, Siamo tutti puttane. Contro la dittatura del politicamente corretto, Marsilio, Venezia 2014.

[2] M. Weber, La politica come professione, Armando Editore, Roma 1997.


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a cura di Michele Lucivero

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