Striscia di Gaza, Il Fatto: per Hamas il vero nemico non è Israele, ma Abu Mazen

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Gerusalemme, 1 aprile 2018. In migliaia nelle strade della Striscia di Gaza hanno partecipato ieri ai funerali dei manifestanti uccisi nel venerdì di sangue, negli scontri lungo la frontiera dove l’esercito israeliano ha ucciso 16 palestinesi e ne ha feriti oltre 1300. Il giorno più sanguinoso dalla guerra del 2014. In diverse città della Striscia una folla compatta ha accompagnato le bare dei manifestanti uccisi. Cinque di loro “erano uomini delle Brigate Ezzedin Al Qassam”, ha annunciato l’ala armata del movimento islamista che controlla la Striscia di Gaza dal 2007.
Nonostante la rabbia crescente, solo poche centinaia di manifestanti sono tornati nel pomeriggio vicino al confine con Israele per continuare la protesta chiamata “la Marcia del Ritorno”, e ci sono stati 13 feriti.

Hamas progetta nuove manifestazioni lungo la barriera di sicurezza tra Gaza e Israele per le prossime sei settimane per chiedere il “diritto al ritorno” dei profughi e denunciare il blocco imposto dallo Stato ebraico a Gaza.

I palestinesi accusano Israele di uso sproporzionato della forza e le Ong per i diritti umani mettono in discussione l’uso di munizioni vere. Secondo gli organizzatori della protesta, i manifestanti sono stati colpiti quando non rappresentavano una minaccia immediata. Il segretario generale dell’Onu, Antonio Guterres, ha chiesto una “inchiesta indipendente e trasparente”, così come l’Ue con Federica Mogherini, alto rappresentante per la politica estera. Ieri il generale dell’Idf, Ronen Manelis, ha sostenuto con i giornalisti che “i militari hanno sparato ai manifestanti che li attaccavano con pietre e bottiglie molotov. Tutte le vittime erano maschi tra i 18 e i 30 anni, molti dei morti ci erano già noti come attivisti, e almeno due di loro erano membri delle forze armate degli islamisti”.

Hamas potrebbe proclamare una vittoria: decine di migliaia di abitanti di Gaza hanno aderito alla “Marcia del ritorno”, rendendola una delle più imponenti proteste pubbliche palestinesi negli ultimi dieci anni, nella Striscia e in Cisgiordania. Hamas aveva sperato che centinaia di migliaia, magari anche un milione, potessero partecipare. “Ma l’aspettativa – come spiega un collega da Gaza – era che il numero sarebbe stato molto più basso di 30.000. E ora tutti sanno che i numeri cresceranno per il Giorno della Nakba, il 15 maggio”, quando i palestinesi ricordano la “catastrofe” che li ha colpiti con la creazione di Israele. La dirigenza di Hamas, i cui membri si sono fatti notare in molti luoghi chiave nelle proteste di venerdì, è euforica. Foto-op come queste non capitano tutti i giorni. Da Ismail Haniyeh in poi, hanno fatto il giro dei punti caldi e nessuno con un effetto maggiore di Yahya Sinwar, l’indiscusso leader di Gaza. Dal suo punto di vista, Hamas è riuscito venerdì dove l’Anp di Abu Mazen ha fallito. Il movimento islamista, che finora aveva solo sventolato la bandiera della resistenza armata e del terrorismo, ha tirato fuori uno dei più grandi eventi di protesta pubblici mai visti nei Territori dall’inizio della Seconda Intifada 18 anni fa.

E i suoi leader si sono uniti ai dimostranti, mostrando un diverso tipo di leadership da quella dei capi di Fatah in Cisgiordania. Hamas è persino riuscito a riportare la questione palestinese nell’agenda internazionale, da tempo indifferente a ciò che accade a Gaza e in Cisgiordania. Il costo è stato di 16 morti e centinaia di feriti. E i palestinesi di Gaza l’hanno pagato. Questi numeri tenderanno ad aumentare nelle prossime settimane. Il “successo” delle manifestazioni di venerdì si diffonderà in altre aree, come la Cisgiordania, in vista del Giorno della Nakba. Con gli americani pronti ad aprire la loro ambasciata a Gerusalemme il 14 maggio e gli abitanti di Gaza organizzati in una “Marcia del Ritorno” ancora più grande il 15, ci saranno molte motivazioni per protestare anche in Cisgiordania.

Abu Mazen ha proclamato ieri un giorno di lutto nazionale, ha accusato Israele di violenza gratuita, ma sa bene che è troppo tardi e troppo poco per recuperare il rispetto della piazza. Il suo ambasciatore all’Onu ha ottenuto un dibattito di emergenza al Consiglio di sicurezza, dove l’ipocrisia ha prevalso ancora una volta. I civili sono massacrati ogni giorno in Siria e la comunità internazionale guarda intenzionalmente dall’altra parte.

Su questo, nessuno batte il presidente turco Recep Tayyip Erdogan. Anche se il suo esercito sta portando avanti la pulizia etnica nell’area di Afrin nella Siria settentrionale, ieri chiedeva a gran voce un’indagine sulle violenze dell’Idf al confine di Gaza.

di Fabio Scuto, da Il Fatto Quotidiano