Coronavirus, non tutto il male viene per nuocere… allo psicologo: la sua analisi del trauma per uscirne

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Il trama del coronavirus, da superare

Viviamo giorni che resteranno nella storia. In quella con la “S” maiuscola, quella che sarà nei libri dei nostri nipoti, ma anche in quelle che la “s” la portano orgogliosamente “minuscola”, in quella storia fatta di un quotidiano che è stato “spettinato” dal silenzioso soffio di qualcosa di talmente piccolo da non poter essere nemmeno definito “una cellula”.

Già: perché un virus, nella realtà, non ha nemmeno la dignitosa completezza della cellula. È un pezzo di Dna che ha bisogno di entrare in una cellula per potersi riprodurre. Un parassita, insomma! L’umanità intera fermata da un “pezzo di Dna”!

L’incalzante economia mondiale frenata da un “granellino” che nemmeno si può vedere e del quale si avverte la presenza solo nei suoi effetti.

Già: gli effetti!

Ma quali effetti sta avendo su di noi questo periodo?

Oltre a quelli che possono sembrare “palesi” come quelli igienico sanitari (distanziamento sociale, dispositivi di protezione quali mascherine e guanti sempre a portata, iper focalizzazione su tutti gli aspetti igienici, …) e quelli economici (negozi chiusi, cassintegrazione, “arrivare a fine mese”, …) nei confronti dei quali ci sentiamo (tutto sommato!) “comunità” (perché, bene o male, riguardano tutti) ci sono quelli più intimi, quelli più “nascosti” che riguardano il modo in cui ciascuno di noi sta gestendo questo momento tanto particolare.

Ed è proprio in questo “nascondimento” che spesso si celano le vulnerabilità più profonde, quelle difficili da comunicare, quelle che attingono ad aree del nostro cervello così primordiali da risultare poco accessibili alla dimensione logica con la quale siamo abituati ad approcciare la realtà.

Capita sempre più spesso in questi giorni di rispondere a richieste di supporto che hanno a che fare con la gestione di emozioni e stress, con sintomi di quella che il Manuale Diagnostico definisce “disturbo da sintomi somatici” (la vecchia “ipocondria” per capirci), con difficoltà di tipo relazionale che riguardano coppie e famiglie in apparenza rodate da un’esperienza che deriva da anni di convivenza.

Insomma, questo “nemico invisibile” ha slatentizzato (come amano dire i forbiti per significare “portato a galla, fuori dalla latenza”) la nostra difficoltà a gestire l’”invisibile” di ciascuno, quelle parti che la frenesia della vita moderna (alla Calindri per chi se lo ricorda) ha rinchiuso nelle cantine delle nostre anime perché “le cose importanti, quelle che contano, sono quelle che si vedono e si toccano”: il denaro, la roba che si produce, le cose da fare. Mentre, “quelle che non si vedono, tutte quelle panzane di inconscio, transfert, controtransfert … beh! Quelle sono cose per chi ha tempo da perdere”.

E ora che questo estraneo “invisibile” ci costringe a fare i conti col nostro di “invisibile”, ci scopriamo poco esperti, incapaci di farci i conti, poco abili a maneggiarlo.

In una parola: fragili.

Ma non dobbiamo lasciarci abbattere!

Intanto dobbiamo fare memoria che le grandi catastrofi sono anche (e soprattutto) fonte di grandi insegnamenti. Chi ricorda la drammatica esperienza del terremoto dell’Irpinia del 1980 ricorderà anche che da quella esperienza è nata la protezione civile, quella macchina organizzativa attorno alla quale (piaccia o non piaccia) ruota tutta l’organizzazione degli aiuti.

E poi non dobbiamo sottovalutare le capacità che il nostro cervello ha di fare memoria. Il cervello di ognuno di noi porta nelle sue tracce mnestiche i segni (come nascoste cicatrici che aiutano a costruire mappe mentali di eventi che non abbiamo vissuto in prima persona, ma che sono sedimentate nella memoria transgenerazionale, quella che arriva dai nostri avi e dagli avi dei nostri avi, scritta in maniera indelebile tra le pieghe di questo organo straordinario che è il nostro cervello) dell’influenza “spagnola” che ha fatto milioni di morti tra il 1918 e il 1920, di quella “asiatica” del 1957, dell’influenza di Hong Kong nel 1968. Insomma: il nostro cervello “sa” già come se ne esce, ha già esperienza di casi come quello che stiamo vivendo ed è a quelle tracce che sta attingendo (o che dobbiamo portarlo ad attingere) per gestire anche questo evento.

Già: perché l’obiettivo di ogni percorso psicologico (con singoli, con coppie, con famiglie o con gruppi) che lavori sul trauma generato dalla pandemia, deve sempre partire da quest’orizzonte. E deve avere chiaro che ad essere impattante per la persona (per la famiglia, per il gruppo) non è tanto o solo ciò che sta accadendo, ma è la risultante di un’intersezione di piani.

L'analisi del trauma, anche, da coronavirus
L’analisi del trauma, anche, da coronavirus

Per poter lavorare in maniera “ecologica” dal punto di vista psicologico è necessario tener presente, oltre alle caratteristiche dell’evento (la sua gravità, il fatto di essere percepito come una minaccia per la propria vita, l’essere causa di lesioni personali), anche della predisposizione influenzata da eventuali precedenti traumi subiti, dalla presenza di disturbi psichiatrici, dallo status economico sociale, dalle capacità intellettive e culturali espresse. Questa predisposizione influisce su quella che sarà l’interpretazione personale che ciascuno dà di ciò che sta accadendo. Come l’approccio cognitivo sottolinea, questo terzo elemento attinge alle convinzioni precedenti che la persona ha maturato. Possono essere presenti quelle che vengono definite “distorsioni cognitive” della realtà legate all’interpretazione errata che l’individuo fa dei dati reali.

Da questo punto di vista lavorare per cercare e correggere queste “distorsioni cognitive” aiuta già a cambiare la prospettiva dalla quale si osserva ciò che ci sta accadendo, attivando quella capacità autocurativa che il nostro cervello ha inscritta geneticamente nel proprio patrimonio.

Assieme a questo l’utilizzo di tecniche o protocolli utili alla stabilizzazione della persona che presenti eccessi emotivi mettono il soggetto nella condizione di tornare a livelli accettabili di stress per poi eventualmente intraprendere percorsi più articolati di analisi del proprio modo di gestire gli eventi stressanti per impararne di più funzionali rispetto alla propria esperienza e al proprio vissuto.

Visto da questa prospettiva un evento come quello che ci sta coinvolgendo diventa un’opportunità per migliorare il nostro livello di conoscenza di sé sulla scia della massima scritta nel tempio di Apollo a Delfi “γνῶθι σαυτόν” (gnōthi sautón), “conosci te stesso” fondamento ed orizzonte di ogni percorso psicologico nel quale l’unico vero protagonista è il paziente al quale lo psicologo deve solo sapersi affiancare per farsi condurre in quelle profondità così poco abitate (e, quindi, spesso spaventose) per tornare, assieme, a dare loro un senso nuovo per il “qui e oggi” della persona, integrando parti che, proprio perché “nascoste” fungono senza che noi ne abbiamo consapevolezza.

Tornare ad abitare queste profondità con l’aiuto e in compagnia di un professionista, mette la persona nella condizione di attingere a tutte le energie che queste profondità custodiscono da sempre, aiutandolo a gestire tutte le situazioni che la vita gli proporrà.

Anche questa pandemia.

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