Danni collaterali del Coronavirus: un (primo?) suicidio, assalti malavitosi ai supermercati, rabbia ma anche rassegnazione

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Il coronavirus Covid 19
Il coronavirus Covid 19

L'emergenza coronavirus sta evidenziando l'inadeguatezza di un modello di sviluppo che sembrava l'unico possibile. Un sistema badato solo sul profitto, nel quale anche la ricerca e l'innovazione devono essere indirizzate verso il guadagno e non il beneficio collettivo e la liberazione dell'umanità dalla fatica e dalle malattie. Da troppo tempo si è perseguito l'obiettivo di togliere qualsiasi funzione allo Stato imponendo l'ideologia secondo la quale solo il privato serve ed è efficiente. Oggi vediamo come questo pensiero unico sia non solo ingiusto ma sbagliato. I tagli alla sanità pubblica in posti letto, strutture, personale e la progressiva precarizzazione del lavoro e della vita dei cittadini hanno ingigantito il problema di un'epidemia nuova e difficile da curare.

Un'epidemia che ha imposto la “quarantena” a tutto il paese. Si resta a casa impauriti e sgomenti. Sembra di vivere in uno di quei film catastrofisti che spesso abbiamo visto con qualche disagio. Ma quella, lo sapevamo, era finzione. Oggi la stiamo vivendo. E cominciamo a vedere i “danni collaterali” di quella che molti definiscono “guerra”.

C'è la notizia di un giovane lavoratore precario morto suicida. Ucciso dalla precarietà. Perché anche se si scrive di uno stato di depressione, il suo disagio è stato reso insopportabile dal licenziamento a causa della crisi dovuta al coronavirus. Forse ce ne rendiamo conto solo adesso ma abbiamo “regalato" a tutti e in particolare ai giovani la disperazione. Una società spietata (non competitiva, proprio spietata) che ci ruba il futuro trasformandolo nella necessità del profitto non ha nulla a che fare con l'umanità. Questo lavoratore si è ucciso perché il sistema con le sue regole infami ci costringe da troppo tempo alla mancanza di felicità.

Si legge di una rabbia crescente e di “assalti” ai supermercati. Qualcosa di cui preoccuparsi, soprattutto se è vero che sono organizzati da quel capitalismo parallelo ed estremo rappresentato dalla malavita organizzata.

Si abbia però coscienza che questo è il risultato di una politica che ha permesso e incentivato la disuguaglianza sociale, che non ha distribuito ricchezza ma la ha concentrata in una minoranza di privilegiati ricchissimi. Una politica che ha permesso e incentivato lo sfruttamento delle persone e dell'ambiente. Un sistema per il quale si deve lavorare in pochi e sempre di più e a costi sempre minori. È un modello di sviluppo spaventoso nel quale il lavoro nero è una forma abituale di lavoro e si può inquinare e distruggere l'ambiente impunemente perché tanto nessuno mai verrà punito.

Così, in un momento di emergenza e di chiusura delle attività non necessarie alla sopravvivenza, la mancanza di garanzie di lavoro e di retribuzione diventa devastante. Il risultato può essere rassegnazione o diventare rabbia. E la rabbia di persone che non hanno di che mantenersi, che lavoravano in nero e che, oggi, sono prive di reddito, è qualcosa di logico e prevedibile.

In una società “ricca” e “civile” come la nostra non è comprensibile (e tanto meno ammissibile) che circa il 10% della popolazione versi in stato di completa povera e che soffra letteralmente la fame. E non si può pensare neppure di risolvere la cosa con qualche elemosina necessaria, forse, a superare la contingenza ma non sufficiente a risolvere il problema. E non si può pensare di continuare, finita l'emergenza, con le pratiche oscene di un sistema inumano. Ci vogliono trasformazioni profonde, strutturali, e obiettivi completamente diversi da quelli del capitalismo trionfante.

Siamo nel mezzo di una “guerra”, sostengono in tanti, contro un nemico invisibile e pericoloso. Lo dobbiamo sconfiggere con l'unità e la solidarietà di tutti. E anche questa necessità evidenzia la brutalità del sistema nel quale stiamo vivendo. La parola solidarietà è stata cancellata dal vocabolario del capitalismo globale, sostituita da termini quali competizione, mercato, finanza, profitto, individualismo …

Quelli che vediamo (morte, suicidi, rabbia, rassegnazione) sono danni collaterali del coronavirus? Forse, ma quello che è sicuro è che sono il prodotto di un sistema che ha mostrato, proprio nel momento del bisogno, il suo vero volto inadeguato, spietato, inumano.

Giorgio Langella - Dennis Vincenti Klapijk

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(qui la situazione ora per ora sul Coronavirusqui tutte le nostre notizie sull’argomento, ndr)

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Giorgio Langella
Giorgio Langella è nato il 12 dicembre 1954 a Vicenza. Figlio e nipote di partigiani, ha vissuto l'infanzia tra Cosenza, Catanzaro e Trieste. Nel 1968 il padre Antonio, funzionario di banca, fu trasferito a Lima e lì trascorse l'adolescenza con la famiglia. Nell'ottobre del 1968 un colpo di stato instaurò un governo militare, rivoluzionario e progressista presieduto dal generale Juan Velasco Alvarado. La nazionalizzazione dei pozzi petroliferi (che erano sfruttati da aziende nordamericane), la legge di riforma agraria, la legge di riforma dell'industria, così come il devastante terremoto del maggio 1970, furono tappe fondamentali nella sua formazione umana, ideale e politica. Tornato in Italia, a Padova negli anni della contestazione si iscrisse alla sezione Portello del PCI seguendo una logica evoluzione delle proprie convinzioni ideali. È stato eletto nel consiglio provinciale di Vicenza nel 2002 con la lista del PdCI. È laureato in ingegneria elettronica e lavora nel settore informatico. Sposato e padre di due figlie oggi vive a Creazzo (Vicenza). Ha scritto per Vicenza Papers, la collana di VicenzaPiù, "Marlane Marzotto. Un silenzio soffocante" e ha curato "Quirino Traforti. Il partigiano dei lavoratori". Ha mantenuto i suoi ideali e la passione politica ed è ancora "ostinatamente e coerentemente un militante del PCI" di cui è segretario regionale del Veneto oltre che una cultore della musica e del bello.