Anche Vicenza è stata vittima del fenomeno architettonico delle chiese cosiddette «postconciliari». Si chiamano così perché sono state costruite dopo il Concilio Ecumenico Vaticano II (1962-1965) e progettate secondo le linee di riforma dell’edilizia sacra che furono fissate in quel contesto.
Fino alla metà del secolo scorso l’estetica interna ed esterna delle chiese cattoliche aveva rispettato un modello che le rendeva riconoscibili nella loro identità e nella loro funzione e, nel contempo, le distingueva dalla circostante edilizia civile. In altre parole: si capiva subito che quella era una chiesa perché era diversa dalle case che stavano attorno. Il campanile era l’elemento architettonico che la identificava, una torre esterna che culminava nella cella campanaria e che doveva essere visibile da lontano. Ovviamente le chiese preconciliari furono costruite in stili diversi, che si successero con l’andar dei secoli (romanico, gotico, neoclassico, barocco), ma che mai intaccarono la riconoscibilità dell’edificio destinato al culto.
Il Vaticano II cambia tutto. Il riformismo che innova radicalmente il rapporto della chiesa con l’uomo, ponendo quest’ultimo al centro della liturgia e della pastorale, investe anche l’edilizia religiosa sradicandone sia la forma tradizionale che il principio della identità. La chiesta postconciliare non è più progettata secondo le esigenze e le impostazioni del rito antico perché questo è cambiato, né deve distinguersi dagli edifici civili a cui, anzi, deve piuttosto omologarsi.
Spariscono quindi il campanile e la facciata, si abbandona la tradizione dell’abside volta a oriente, lo spazio interno diventa circolare, i materiali sono quelli tipici dell’architettura civile contemporanea (cemento, ferro, vetro) e, per l’aspetto esteriore, non c’è più alcun vincolo per i progettisti: la chiesa può assomigliare a qualsiasi altro tipo di edificio.
Le nuove chiese si incastonato nei nuovi quartieri, nelle periferie e spesso aggiungono bruttezza a bruttezza. Se le chiese del passato potevano qualificare con la loro esteriorità, non necessariamente monumentale, un rione o un borgo, quelle nuove destano quasi sempre perplessità (se non peggio) perché sono di una vistosità spesso pacchiana e inelegante, volutamente dissonanti con un contesto urbanistico monocorde e funzionale (com’è quello delle periferie) e ispirano più incredulità che sentimenti religiosi.
Anche Vicenza porta i segni di questa riforma. Cominciamo dalla chiesa di San Giuseppe Lavoratore nel quartiere cosiddetto del mercato nuovo (in copertina), che fa da cerniera fra quello di San Felice e quello di San Lazzaro. È costruita fra il 1975 e il 1978 in un rione semiperiferico e fronteggia, a sud, il vasto piazzale prospicente il mercato coperto, com-plesso a sua volta di notevole bruttezza. È progettata dall’architetto Sergio Ortolani, un’archistar vicentina dell’epoca che ha firmato anche il Villaggio del Sole e i padiglioni della Fiera Campionaria all’interno del Giardino Salvi. La chiesa è di medie dimensioni e si caratterizza per una non-facciata: sul fronte strada campeggia l’angolo formato da due vele triangolari di cemento armato dal cui vertice discende una sorta di tunnel, sui cui lati occhieggiano oblò emisferici di grandezza digradante, che si appoggia sulla cupola sovrastante l’aula. Questa non è al piano terra bensì al primo piano, altra scelta singolare. Se non ci fosse una piccola croce sul punto più alto dell’edificio, nessuno capirebbe che si tratta di una chiesa.
Quanto aggressivo e invadente è l’aspetto di San Giuseppe, tanto invece è poco appariscente quello di San Carlo al Villaggio del Sole. Eppure il progettista è lo stesso, Ortolani (con i colleghi Sergio Musmeci e Antonio Cattaneo), che qui però si è ispirato a una tenda. Proprio così: la chiesa, a pianta circolare, ha un tetto che ricorda quello di un tendone che culmina con un tronco di cono molto appuntito. È stata inaugurata il 7 ottobre 1962, in leggero anticipo sulle riforme del concomitante Vaticano II ma già in piena sintonia con i suoi dettami, e si inserisce con una volume-tria volutamente minimalista fra i palazzoni del nuovo quartiere nato due anni prima. Non c’è, ovviamente alcun legame fra l’edificio religioso e l’edilizia popolare, monocorde e ripetitiva in modo depressivo, che s’irraggia tutto attorno. La piccola chiesa ne è quasi oppressa e soffocata, sparisce in mezzo ai casermoni del Villaggio del Sole, non c’è continuità stilistica. Qualsiasi chiesetta di paese risulterebbe più coinvolgente di San Carlo.
Dalla chiesa-tenda alla chiesa-pagoda. È quella di San Benedetto Abate nel quartiere di Bertesinella, periferia est di Vicenza, nato negli Anni Cinquanta del secolo scorso come propaggine della frazione di Bertesina.
È davvero scioccante l’aspetto di questa chiesa, che, dall’imponenza dei suoi tre piani, svetta in un contesto di edilizia periferica di volumi contenuti e altezze modeste. Colpiscono soprattutto i tetti aggettanti, ricoperti di tegole, che spuntano su tre lati e a tutti i livelli e che ne costituiscono il tratto estetico distintivo e una sorta di campanile che svetta al culmine e, a prima vista, si potrebbe confondere con un’antenna per teletrasmissioni. Che c’entra con il resto del quartiere questo edificio religioso? Cosa unisce una onesta periferia proliferata in poco tempo ai lati della via che porta a Camisano con questa simil-pagoda? Purtroppo, la rete non ci ha fornito il nome del progettista e nemmeno una scheda dell’edificio. Sembra quasi che ci sia una damnatio memoriae.
E pensare che, poco lontano, c’è l’omonimo bellissimo oratorio tardomedievale, un tempo annesso a un monastero benedettino e, per fortuna, restaurato ed agibile. Nella sua semplicità questa chiesetta ispira tanta più religiosità e senso del sacro rispetto all’invadente vicino.
Qui gli articoli della rubrica “La Vicenza degli orrori”
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