Referendum sulla giustizia, il parere dell’ex magistrato Giovanni Schiavon: il flop prevedibile ma non nella misura, per la riforma strumento non adatto

Referendum sulla giustizia, il parere dell'ex magistrato Giovanni Schiavon
Referendum sulla giustizia, il parere dell'ex magistrato Giovanni Schiavon

Come era prevedibile, si è registrato un significativo crollo dell’affluenza alle urne in occasione del referendum sulla giustizia con i cinque quesiti riguardanti tematiche delicate che ho provato ad illustrare su questa testata; meno prevedibile era la misura, davvero sorprendente, dell’astensionismo, che ha reso, ancora una volta, non valida una consultazione popolare: hanno votato poco più del 20% degli aventi diritto, come mai era capitato nelle precedenti 18 consultazioni referendarie tenuto nell’Italia repubblicana.

E, come era altrettanto prevedibile, le “forze politiche” si sono affannate ad indicare, con la solita sicumera, le responsabilità per il quorum non raggiunto: c’è stato chi ha parlato di boicottaggio, per essere stato disposto il voto in un solo giorno e per esserci stata una  voluta disinformazione sui quesiti; chi ha denunciato una crescente disaffezione dell’elettorato; chi ha lamentato l’eccesso di disorganizzazione dell’apparato elettorale.  Ma i fattori del mancato raggiungimento del quorum sono, in realtà, molteplici.

Già si era detto che la strada maestra per modificare l’ordinamento giudiziario e ovviare alle tante storture dell’attuale sistema non può essere lo strumento referendario ( solo abrogativo), che è utile e significativa  espressione della volontà popolare, solo quando i quesiti sono chiari e precisi (es. monarchia o repubblica; divorzio si, divorzio no …).

Se il cambiamento proposto si riferisce ad una materia complessa, che richiede interventi interconnessi, è evidente che esso può attuarsi soltanto attraverso l’opera riformatrice di un legislatore che ha il potere di cancellare o modificare norme superate o rivelatesi inadatte e sostituirle con disposizioni più evolute e più aderenti alle rinnovate esigenze della società. Non c’è dubbio che gli elettori sono convinti che il correntismo con il quale è solito esprimersi il Consiglio Superiore della Magistratura (e anche questo non è un segreto) sia un inconveniente grave, che deve essere eliminato, per evitare che l’immagine della magistratura possa essere ulteriormente appannata; ma essi hanno anche capito che, pur se avessero votato a favore dei quesiti, nulla sarebbe cambiato. Il problema da risolvere è la radicale riorganizzazione del sistema giudiziario e non è, certo, l’irrilevante e marginale modifica di un paio di isolate previsioni ordinamentali. Tanto più quando gli stessi quesiti sono mal formulati  e, soprattutto, presentati in modo ingannevole ed equivoco.

Sono convinto che il quorum per i referendum sulla giustizia sia  clamorosamente mancato non perché la gente sia disposta a tollerare ulteriormente la nefasta influenza delle correnti o  l’ambiguo rapporto tra magistrati giudicanti e requirenti, ma perché si è resa conto che il mezzo referendario è inadeguato, fuorviante e basato su quesiti irrilevanti o non chiari.

Tanto per fare un altro esempio, il quesito riferito alla proposta abrogazione della Legge Severino era palesemente ingannevole e la sua presentazione era diretta a far credere agli elettori che, con esso, si volevano tutelare non già noti  personaggi gravati da sentenze di condanna passate in giudicato (come, invece, era), ma solo qualche ingenuo candidato in una elezione,  colpito da una misura cautelare ingiusta o da una sentenza di condanna non definitiva, suscettibile, poi, di essere riformata in appello.

Soprattutto, penso che il referendum sulla Giustizia sia stato solo un improprio strumento politico di ricerca del consenso popolare a buon mercato, da parte di chi ha analizzato tematiche sulle quali si stanno continuamente (spesso anche giustamente) addensando le nubi del malcontento della cittadinanza; quello della Giustizia è un problema serio, che va risolto solo attraverso meditate, coordinate e radicali riforme, non solo processuali, ma anche (e soprattutto) ordinamentali.

Conseguentemente, non credo che il voto, in sé, prevalentemente favorevole alle abrogazioni proposte nei cinque quesiti, possa avere un qualche significato politico, suscettibile di influenzare il legislatore che metterà mano alla riforma. Penso che  questo esito referendario non serva a niente, anche perché molti cittadini hanno scelto deliberatamente la strada del non-voto, proprio per invalidare una consultazione popolare che appariva chiaramente inutile, a prescindere dai convincimenti personali degli elettori sulle singole questioni.

In ogni caso, mi pare evidente il continuo declino dell’istituto del referendum, al quale la Costituzione Repubblicana aveva dato un’importanza rilevantissima, come insostituibile strumento di esercizio di democrazia diretta; proprio la Repubblica è nata da esso! Ma, un po’ alla volta, il referendum ha subito una significativa e progressiva usura. Basti considerare che, fra la metà degli anni ’70 e la metà degli anni ’90, in Italia sono state tenute ben nove consultazioni elettorali su tematiche non particolarmente sentite (come quelle della caccia o dell’uso di fitofarmaci in agricoltura …).

Ma questo strumento abrogativo richiede sempre che i temi sui quali i cittadini sono chiamati ad esprimersi siano di grande importanza per il Paese e siano, soprattutto, di facile comprensione per tutti.

Il referendum non è e non può essere un anomalo e facile strumento di ricerca del consenso politico.