Tutto tace, tutto ritorna normale: anche l'(in)sicurezza sul lavoro?

220
I morti sul lavoro, Rosai e l'uomo, crocifisso
I morti sul lavoro, Rosai e l'uomo, crocifisso

Succede nell’agosto dopo la “quarantena” per pandemia di coronavirus… tutto tace e tutto ritorna normale, anche i morti sul lavoro?

A differenza di altri anni nei quali agosto era tradizionalmente un mese di chiusura delle fabbriche, quest’anno il lavoro sta timidamente riprendendo. Le ferie estive, che abitualmente iniziavano in questi giorni, sembrano “sospese”. È necessario recuperare le fermate a causa della pandemia. Si può e si deve ricominciare a produrre e vendere e rimettere in moto l’economia … sì.

In queste settimane però, assieme alla ripresa delle attività produttive, si ricominciano a contare i decessi nei luoghi di lavoro. Un’impennata preoccupante. La “tragica fatalità” è smentita dal susseguirsi di tante, troppe tragedie. È difficile credere realisticamente che tutto succeda per colpa di un destino avverso. E se tutti questi morti fossero una conseguenza della necessità di lavorare sempre più ore, con sempre maggiore fatica? Se il prestare meno attenzione per recuperare il “tempo perduto” per garantire il profitto (di “lorpadroni”) fosse uno dei fattori scatenanti del massacro (forse il principale)?

Quseta situazione non è una conseguenza dell’essere tutti nella stessa barca, ma deriva dall’essersi convinti che il lavoro debba servire a produrre, appunto, solo un maggior profitto per qualcuno. Profitto che vale di più della sicurezza così che tanti devono mettere a rischio la propria vita e la salute per garantire il guadagno di pochi. Così va il sistema, un modello di sviluppo malvagio. Questo è il “realismo capitalista” che impone quel pensiero unico del quale tutti siamo preda in maniera raramente cosciente.

Eppure si potrebbe lavorare meglio, meno, tutti e in sicurezza. E si dovrebbe guadagnare il giusto per vivere bene e avere più tempo libero per divertirsi, giocare, amare, istruirsi, conoscere … Certo, bisognerebbe avere prospettive ben diverse da quelle che il pensiero unico oggi trionfante ci impone, ripudiando l’egoismo e l’individualismo, per esempio. Essere felici non per la ricchezza personale che si accumula ma per la felicità diffusa tra tutti, senza pensare che esistiamo noi e poi vengono “gli altri”. Un sistema diverso, un modello di sviluppo che metta al centro del progresso l’essere umano.

Quello che abbiamo davanti agli occhi ha poco di umano. È sfruttamento sempre più brutale. Il lavoro deve essere il primo diritto costituzionale. E un diritto non può costringere chi lavora ad affrontare turni massacranti, mancanza di sicurezza, alienazione, infortuni, malattie … qualcosa che deve essere affrontato con serietà e determinazione. Invece tutto viene lasciato sottotraccia. Anche per avere notizie bisogna cercare, scavare in profondità, non lasciarsi vincere dallo sconforto.

I dati di questa prima settimana lavorativa di agosto sono impressionanti: sono 16 i lavoratori morti per infortunio nei luoghi di lavoro! Praticamente tre al giorno.

Un’ecatombe, che segue, in un tragico crescendo le altre giornate di morte da quando le attività produttive sono state ufficialmente riaperte.

Se a inizio maggio, quando è stata alleggerita la quarantena, i morti nei luoghi dei lavoro da inizio anno erano 160, oggi, dopo solo 3 mesi, sono oltre 335. Significa che ogni mese sono morte, e solo per infortunio nei luoghi di lavoro, circa 60 persone. Un numero troppo alto che avvalora la sensazione che, negli infortuni sul lavoro, ci sia ben altro che la “tragica fatalità”.

Questa situazione spaventosa sembra importare a pochi.

Tutto tace.

La normalità dell’indifferenza ha ripreso la sua forza.

Si ritorna a lavorare ad occhi chiusi e a capo chino, ignari che così è impossibile andare avanti.

Articolo precedenteVerso il referendum sul taglio dei parlamentari: democrazia a rischio? Le voci del “no” e del “sì” con l’accento berico
Articolo successivoDecreto Agosto approvato dal Cdm “salvo intese”. Le novità in arrivo
Giorgio Langella
Giorgio Langella è nato il 12 dicembre 1954 a Vicenza. Figlio e nipote di partigiani, ha vissuto l'infanzia tra Cosenza, Catanzaro e Trieste. Nel 1968 il padre Antonio, funzionario di banca, fu trasferito a Lima e lì trascorse l'adolescenza con la famiglia. Nell'ottobre del 1968 un colpo di stato instaurò un governo militare, rivoluzionario e progressista presieduto dal generale Juan Velasco Alvarado. La nazionalizzazione dei pozzi petroliferi (che erano sfruttati da aziende nordamericane), la legge di riforma agraria, la legge di riforma dell'industria, così come il devastante terremoto del maggio 1970, furono tappe fondamentali nella sua formazione umana, ideale e politica. Tornato in Italia, a Padova negli anni della contestazione si iscrisse alla sezione Portello del PCI seguendo una logica evoluzione delle proprie convinzioni ideali. È stato eletto nel consiglio provinciale di Vicenza nel 2002 con la lista del PdCI. È laureato in ingegneria elettronica e lavora nel settore informatico. Sposato e padre di due figlie oggi vive a Creazzo (Vicenza). Ha scritto per Vicenza Papers, la collana di VicenzaPiù, "Marlane Marzotto. Un silenzio soffocante" e ha curato "Quirino Traforti. Il partigiano dei lavoratori". Ha mantenuto i suoi ideali e la passione politica ed è ancora "ostinatamente e coerentemente un militante del PCI" di cui è segretario regionale del Veneto oltre che una cultore della musica e del bello.