La violenza e l’ubbidienza al potere, è possibile una via di liberazione? Le riflessioni di uno studente

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Violenza e ubbidienza, via di liberazione
Violenza e ubbidienza, via di liberazione

La violenza è un aspetto connaturato all’essere umano oppure cattivi si diventa? Riflessioni filosofiche e sociologiche di uno studente liceale sulla natura del potere e dell’ubbidienza.

«L’uomo, in generale, se è ridotto a sé stesso, è troppo cattivo per essere libero»[1]. Questa frase di uno dei teorici della restaurazione riflette il pensiero dell’aristocrazia che, spaventata dalle rivoluzioni del 700’-800’, aveva dichiarato necessaria, per la stessa natura sottomessa e corrotta dell’uomo, l’esistenza di un potere autoritario e assolutista. Non è quindi l’autorità violenta, ingiusta o creatrice di disuguaglianze, ma è la violenza stessa insita nella natura umana, a cui non c’è rimedio, se non affidarsi a un sovrano e a un’autorità.

Il popolo «si piega sotto la sovranità perché sente che è qualcosa di sacro che esso non può né creare né distruggere»[2]. L’essere umano è, allora, naturalmente corrotto e portato alla sottomissione all’autorità e alla violenza?

Un esperimento sociale condotto dallo psicologo americano Philip Zimbardo, narrato nel volume L’effetto Lucifero, ha provato ad approfondire il tema della relazione tra violenza e autorità. Il ricercatore scelse ventiquattro studenti dell’università di Stanford e li sottopose al seguente esperimento psicologico: una simulazione di un carcere. Gli studenti furono scelti anche in base alla loro attitudine nell’avere comportamenti devianti, preferendo i più emotivamente equilibrati. Gli studenti furono divisi in due gruppi, uno simulava le guardie carcerarie e un secondo gruppo i detenuti. Per rendere la simulazione realistica fu simulato persino un arresto a sorpresa con dei veri agenti di polizia, e furono portati nell’università di Stanford dove era stata allestita la finta prigione.

I risultati dell’esperimento furono terribili, così terribili da dover sospendere l’esperimento dopo solo sei giorni, contro le due settimane previste, per le terribili violenze che si stavano diffondendo. Cosa era successo? Alle finte guardie erano stati impartiti degli ordini da far rispettare ai detenuti, e alla fine il tutto degenerò in una forte violenza psicologica e fisica dei secondini sui detenuti. Si erano quasi dimenticati che era tutto un esperimento, che erano tutti studenti e nessuno aveva realmente commesso un crimine e avevano messo da parte la loro coscienza morale per seguire il ruolo che l’autorità del finto carcere gli aveva imposto.

L’autorità dettava la morale e faceva diventare violente e malvagie persone che in altri contesti non lo erano, facendo sviluppare persino una consapevolezza di colpevolezza nei finti detenuti, che si ritenevano criminali anche se coscienti di essere innocenti. Quale grado di influenza ha allora la società su di noi? Cattivi si diventa?

L’esperimento di Zimbardo fa nascere diverse domande e riflessioni anche sulla condizione carceraria e sulla violenza, ma la cosa più sorprendente è quello che lo stesso psicologo chiamerà effetto lucifero: è la società che genera il male, che arriva a modificare ciò che pensiamo sia giusto o sbagliato, liberando in determinate situazioni il nostro lato lucifero.

Studenti che in determinati contesti non avrebbero mai fatto violenza fisica e psicologica sugli altri studenti erano stati trasformati, in un tempo straordinariamente breve, in creatori di violenza da quella società. Il crimine e la violenza diventano quindi fatti sociali, così come l’autorità stessa, che possono essere studiati.

Il sociologo Émile Durkheim pensava persino che la società fosse una «realtà specifica con i suoi caratteri propri»[3], affermando che la società nel suo complesso è più della singola somma degli individui e che anzi è la società, come organismo autonomo, che crea gli individui e ne influenza i comportamenti. La società diventa un potere indipendente e le influenze del potere stesso hanno sull’individuo «un potere di coercizione in virtù del quale si impongono a lui»[4]. L’uomo è quindi un prodotto culturale della coscienza collettiva della società, ovvero dell’insieme delle regole e degli aspetti culturali e popolari della società stessa.

Un’altra prospettiva del rapporto di autorità è stata data dal sociologo Max Horkheimer, che si è posto come obiettivo della ricerca quello di studiare nel suo complesso la relazione fra la coscienza dell’individuo e l’autorità, includendo quindi gli aspetti economici, filosofici, psicologici, sociali e storici del condizionamento autoritario e sociale. La volontà dell’individuo si fonda quindi «sui rapporti materiali e sulla situazione complessiva reale del gruppo sociale al quale l’individuo appartiene»[5].

Il modo di essere psicologico dell’individuo dipende dalle relazioni sociali, oltre che da condizionamenti di tipo economico e politico. Le relazioni economiche all’interno della società hanno anch’esse un forte ruolo nella formazione stessa dell’individuo, predisponendolo all’autoalienazione sociale. D’altra parte, se il potere in tutti gli aspetti crea l’individuo, ci sono prospettive di liberazione?

[1] J. De Maistre, Œuvres complètes, Lyon 1891-1892, II p. 339.

[2] Ivi, pp. 354-355.

[3] É. Durkheim, Le regole del metodo sociologico, Editori Riuniti, Roma 2019, p. 103.

[4] Ivi, p. 5.

[5] M. Horkheimer, Teoria critica, Einaudi, Torino 1974, p. 86.


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a cura di Michele Lucivero

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Questo articolo è il frutto della collaborazione tra il giornale Vipiù.it e il Liceo Scientifico, Scienze Applicate, Linguistico e Coreutico “Da Vinci” di Bisceglie (BT) per i Percorsi per le Competenze Trasversali e per l’Orientamento (PCTO).