I vecchi poteri avanzano compatti per la nuova Cdp, Il Fatto: c’è l’ombra del vicentino Paolo Scaroni

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Esaurita la febbrile trattativa a quattro (Lega, M5S, Berlusconi, Quirinale) sui nomi dei ministri, il primo nodo da sciogliere per il governo Di Maio-Salvini sarà la scelta dei vertici della Cassa Depositi e Prestiti (Cdp). I tecnicismi nascondono al popolo che lì c’è il potere vero. Sarebbe quindi utile che almeno su questo il nuovo governo (se riuscisse a nascere) fosse davvero populista, cioè trasparente. I primi segnali non sono incoraggianti.
L’instancabile Luigi Bisignani, amico del presidente uscente Claudio Costamagna, ha dato a Matteo Salvini il consiglio inequivocabile di non perdere l’occasione “di condizionare il governo con i suoi uomini non solo nell’esecutivo ma anche nelle società partecipate, dalla Cassa Depositi e Prestiti fino alla Rai, senza il rischio di sporcarsi le mani“. Questa è la musica. Pentastellati in preda a governismo infantile muoiono dalla voglia di ballarla.

La Cdp è la vera cassaforte dello Stato. Raccoglie 250 miliardi di risparmio postale e ne gira 150 allo Stato depositandoli nel cosiddetto conto di Tesoreria. Lo Stato paga a Cdp interessi maggiori di quelli che Cdp dà ai risparmiatori. Due anni fa il governo Renzi ha aumentato il tasso pagato a Cdp. Il margine di interesse (la differenza tra i tassi percepiti e quelli pagati) è cresciuto dai 905 milioni del 2015 ai tre miliardi del 2017. Due miliardi in più. L’utile netto di Cdp è cresciuto solo di 1,2 miliardi. Gli 800 milioni di differenza è quanto ogni anno la Cassa può spendere per fare il nuovo Iri. Sono i soldi che le consentono di essere azionista dell’Eni, delle Poste e della Saipem, ma anche della Kedrion del capogruppo Pd al Senato Andrea Marcucci, della Inalca Carni (gruppo Cremonini) e degli hotel di Rocco Forte. Un minestrone nel quale neppure uno chef stellato sarebbe in grado di riconoscere un sapore di logica industriale.

Costamagna vorrebbe restare. Il banchiere d’affari ex Goldman Sachs nel 2015 fu trasformato da Matteo Renzi in servitore dello Stato. Dopo le perplessità iniziali sembra aver scoperto che il potere è più attraente del denaro, soprattutto quando ne hai già accumulato abbastanza. Ma la sua posizione appare compromessa. Il premier uscente Paolo Gentiloni aveva già storto il naso quando ha saputo che Cdp l’anno scorso ha prestato 300 milioni al gruppo arabo Meydan per finanziare un centro commerciale a Dubai la cui costruzione è stata affidata alla Salini Impregilo. È normale che Cdp finanzi la committenza straniera per le aziende italiane (anche se sarebbe più sensato sostenere le commesse per le fabbriche italiane di Finmeccanica e Fincantieri che i muratori di Dubai). Meno normale che Costamagna, presidente di Salini Impregilo fino al giorno in cui passò a Cdp, sia oggi consigliere della holding Athena attraverso la quale Pietro Salini controlla il gruppo. A compromettere definitivamente la posizione di Costamagna è stata la maldestra gestione dell’operazione Tim, con gli 800 milioni di risparmio postale spesi per comprare il 5 per cento della società telefonica e consentire al fondo Elliott di scalzare dal controllo la francese Vivendi. Il regista di Elliott è stato Paolo Scaroni, ex ad dell’Eni, oggi imputato con Bisignani nel processo per corruzione internazionale in Nigeria.

Perse le speranze per Costamagna e anche per l’incolore ad Fabio Gallia, è pronto un piano B per garantire la continuità: nominare amministratore delegato l’attuale direttore finanziario Fabrizio Palermo e direttore generale l’attuale capo del settore immobiliare Salvatore Sardo, già stretto collaboratore di Scaroni all’Eni. M5S e Lega hanno già dato segnali di disponibilità. Il nuovo che avanza.

di Giorgio Meletti, da Il Fatto Quotidiano