Inizia la Fase 2 … tutto tornerà come prima, anzi peggio con più morti sul lavoro: Salvini contro la proposta Gribaudo di assumere ispettori

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Fase 2 si annuncia con più morti sul lavoro
Fase 2 si annuncia con più morti sul lavoro

I padroni e i loro servi. Alcune notizie dopo l'inizio della “Fase 2”. Dall'Osservatorio Indipendente di Bologna morti sul lavoro di Carlo Soricelli: Con la riapertura riparte la strage sui luoghi di lavoro morti sui luoghi di lavoro: cinque i lavoratori morti il 5 maggio

Si apre la fase 2 del coronavirus e riparte la strage di lavororatori, ben 5 sui luoghi di lavoro. Muore a causa di un'esplosione in una fabbrica di plastica a Ottaviano Vincenzo Lanza, feriti gravemente anche due suoi colleghi. In Provincia di Livorno un operaio albanese di 29 anni è morto investito da un camion in manovra, stava potando un albero. Perde la vita Luca Morra un militare di 44 anni dell'aeronautica dopo aver battuto la testa. Due sono gli agricoltori che hanno perso la vita schiacciati dai trattori che guidavano: nelle province di Ferrara e Pistoia. Sono già 344 i lavoratori morti per infortuni sul lavoro provocati dal coronavirus.

… e sono quattro i lavoratori morti il 6 maggio.

Quattro morti nei luoghi di lavoro il 6 maggio, dopo i 5 di martedì 5 maggio. bortolo Belinghieri muore dopo 4 mesi di agonia, dopo essere stato colpito da un masso mentre posava una rete di protezione dai massi. Non potevano mancare le "solite" vittime giornaliere in agricoltura, per lo schiacciamento da trattore in provincia di Catania e di un edile caduto dall'alto di un'impalcatura in provincia di Novara. Muore anche un operaio alle case Rosse in provincia di roma: la vittima è stata schiacciata da un muletto.

Sono, quindi, nove i lavoratori morti per infortunio in due giorni. Questo è un segnale disastroso che dimostra che nel lavoro e di lavoro si muore e si moriva. Inoltre, considerando che sono 167 i lavoratori morti per infortunio nei luoghi di lavoro da inizio anno, risulta evidente come la sicurezza per chi lavora sia del tutto insufficiente anche in assenza di pandemia. Al di là delle mascherine, del distanziamento e delle regole imposte dalla presenza del coronavirus.

È necessario, anzi indispensabile, che si faccia qualcosa, che non ci si limiti a qualche frase di circostanza, che si assuma quella della sicurezza nel lavoro e della salute dei lavoratori come la questione prioritaria del nostro paese. Siamo di fronte da troppo tempo (oltre 17.000 morti in 12 anni se si considerano anche i decessi in itinere) a fatti che sono vere e proprie tragedie dovute alla sottovalutazione e all'indifferenza dimostrata, di fatto, dalla politica istituzionale e dalle associazioni di categoria imprenditoriali.

Una sottovalutazione che viene ingigantita anche dalla timidezza dimostrata dai maggiori sindacati, perché non ci si può limitare a qualche ora di sciopero o a qualche manifestazione nei giorni di riposo. Sarebbe il caso di porre la questione della sicurezza e della salute nel lavoro al centro dell'azione politica e sindacale, anche a costo di aprire dure vertenze conflittuali a livello nazionale.

La pandemia di coronavirus ha aperto qualche breccia e qualche occhio. Ha evidenziato la carenza di sicurezza e la difficoltà di prevenire e controllare quanto avviene nei luoghi di lavoro. Imporrebbe una presa di coscienza e scelte ben precise.

Dalle istituzioni, dai padroni e dai sindacati (almeno quelli maggiori) si parla di cambiamento. Di un'azione comune, di un patto sociale … si arriva a dichiarare che “siamo tutti sulla stessa barca” e che ci vogliono scelte forti.

Ma quando si arriva al dunque, si evidenziano visioni differenti. In pratica ritorna a galla in tutta la sua brutalità una realtà che si vuole nascondere: gli interessi dei padroni sono ben diversi da quelli di chi vive del proprio lavoro. Sono, anzi, antitetici anche se si vorrebbe far credere il contrario.

Dalla parte padronale (confindustria e altre associazioni di categoria) si chiede a gran voce una sorta di impunità. Si afferma che bisogna ripartire subito con le attività, che lo Stato deve fornire alle imprese risorse a fondo perduto e i dispositivi necessari. Si sostiene che i padroni garantiranno la sicurezza e che è meglio non ci siano controlli. Bisogna avere fiducia in chi “sa fare il proprio lavoro”. Lo Stato deve guardare e non intervenire se non elargendo denaro pubblico. Non interferisca con nazionalizzazioni o patrimoniali, anzi deve privatizzare e diminuire le tasse alle imprese (e ai ricchi). I soldi devono essere trovati, evidentemente, non dove sono stati accumulati ma dalle solite fonti (lavoratori, pensionati, prestiti da UE e banche) così ricadranno sulle spalle di tutti i cittadini che hanno sempre pagato le crisi prodotte da altri (quegli “imprenditori seri” che hanno trasferito lavoro all'estero e “pagano le tasse” nei paradisi fiscali dove hanno portato le sedi legali delle loro aziende).

Così, quando si ipotizza di assumere qualche migliaio di ispettori addetti alla prevenzione e al controllo della sicurezza nei luoghi di lavoro, si scatena il fuoco di fila dei padroni e dei loro servi.

Dichiarazioni indignate da più parti; lettere di associazioni confindustriali che non accettano che i “bravi imprenditori” possano essere “controllati”; pretese di avere assoluta fiducia nelle imprese; affermazioni secondo le quali sono “lorpadroni” e solo loro a garantire sicurezza e salute e che qualsiasi controllo è un'intrusione dello Stato. Basta con la burocrazia urlano. L'importante è togliere “lacci e laccioli”, abbattere i costi di impresa (e la sicurezza è sempre stata considerata più che altro un costo) e garantire il massimo profitto. Tutto deve tornare come prima … o peggio.

Quello che si prospetta è una occupazione di qualsiasi livello di governo e di potere da parte degli “imprenditori seri”. Lo dicono e lo vogliono fare coinvolgendo anche le piccoli e piccolissime aziende, gli artigiani, i commercianti, chi ha partita IVA (spesso perché non trova lavoro stabile) … tutti quei lavoratori e piccoli imprenditori che, in definitiva, subiscono le peggiori imposizioni dei grandi padroni.

Ma ormai è fatta, la battaglia è iniziata. Un tempo si sarebbe chiamata “lotta di classe” e il termine sarebbe appropriato anche oggi perché tale è.

Infatti, il cambiamento che tutti auspicano (spesso solo a parole) potrà rivelarsi una esaltazione del modello che abbiamo vissuto in questi ultimi decenni (maggiore sfruttamento, precarizzazione del lavoro, aumento dell'evasione fiscale, inquinamento, cancellazione dei diritti di chi lavora, pochi o nessun controllo) o diventare qualcosa che tende a una società più equa e giusta (socializzazione dei settori strategici, progressività delle tasse secondo il principio secondo il quale chi ha di più deve contribuire maggiormente, gratuità di fatto dei servizi essenziali, distribuzione della ricchezza tra tutti i cittadini … ). Sono due visioni diverse della società e del suo necessario sviluppo.

Intanto Matteo Salvini (ma è solo un esempio tra i politicanti che popolano lo scenario italiano) ha esplicitato da quale parte si schiera: da quella dei padroni. Assume il ruolo di servile megafono e pubblica sul suo profilo facebook un post che attacca la proposta di Chiara Gribaudo di assumere per la fase 2 gli ispettori del lavoro necessari (ma che sarebbero stati utili anche prima della pandemia).

Accusa chi ha fatto e chi sostiene questa proposta di voler far fallire le imprese e l'Italia. Al solito parla alla “pancia della gente”. Ma qualche domanda sarebbe da porre al capo della Lega: perché il controllo della messa in sicurezza delle imprese dovrebbe farle fallire? C'è forse qualcosa che, lui sa, è meglio nascondere? E cosa è prioritario, secondo lui? E la salute di chi lavora è un bene oltre che individuale anche collettivo o si può mettere sul piatto della bilancia la vita dei lavoratori pur di fare profitto (così come dichiara il suo “amico” d'oltreoceano, Donald Trump?

Perché proprio questo è il punto e forse un po' di chiarezza non guasterebbe. Per “lorpadroni” e i loro servitori, cosa viene prima, il profitto o la salute (e la vita) di chi lavora?

Ormai è fatta, la battaglia è iniziata, si diceva prima. Ed è venuta l'ora di scegliere da che parte stare.

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Giorgio Langella
Giorgio Langella è nato il 12 dicembre 1954 a Vicenza. Figlio e nipote di partigiani, ha vissuto l'infanzia tra Cosenza, Catanzaro e Trieste. Nel 1968 il padre Antonio, funzionario di banca, fu trasferito a Lima e lì trascorse l'adolescenza con la famiglia. Nell'ottobre del 1968 un colpo di stato instaurò un governo militare, rivoluzionario e progressista presieduto dal generale Juan Velasco Alvarado. La nazionalizzazione dei pozzi petroliferi (che erano sfruttati da aziende nordamericane), la legge di riforma agraria, la legge di riforma dell'industria, così come il devastante terremoto del maggio 1970, furono tappe fondamentali nella sua formazione umana, ideale e politica. Tornato in Italia, a Padova negli anni della contestazione si iscrisse alla sezione Portello del PCI seguendo una logica evoluzione delle proprie convinzioni ideali. È stato eletto nel consiglio provinciale di Vicenza nel 2002 con la lista del PdCI. È laureato in ingegneria elettronica e lavora nel settore informatico. Sposato e padre di due figlie oggi vive a Creazzo (Vicenza). Ha scritto per Vicenza Papers, la collana di VicenzaPiù, "Marlane Marzotto. Un silenzio soffocante" e ha curato "Quirino Traforti. Il partigiano dei lavoratori". Ha mantenuto i suoi ideali e la passione politica ed è ancora "ostinatamente e coerentemente un militante del PCI" di cui è segretario regionale del Veneto oltre che una cultore della musica e del bello.