La violenza è un fatto sociale: l’oppressione genera il male? (I)

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L’autorità, servendosi delle relazioni sociali e dei rapporti di potere, influenza le azioni umane e plasma la nostra coscienza: la violenza è quindi un prodotto sociale.

Il pensatore indiano Amartya Sen sostiene che i gruppi sociali in cui siamo inseriti ci conferiscono “un’identità specifica” e che l’ambiente collettivo in cui siamo inseriti costruisce, quindi, la nostra identità. Questa idea è però controintuitiva, dato che siamo portati a credere nell’autonomia decisionale di noi stessi e nella nostra piena libertà. Nella realtà della vita quotidiana siamo infatti portati a pensare che esistiamo come individui in relazione con il mondo esterno, individui che conservano una propria libertà personale sulle azioni. L’idea che i nostri comportamenti, la nostra coscienza e la nostra identità personale abbiano una genesi sociale, seppur contro la percezione comune, è stata sostenuta da alcuni pensatori, tra cui Amartya Sen.

La nostra identità è prodotta e condizionata dai gruppi sociali in cui siamo inseriti e anzi questi ultimi ci forniscono diverse identità a seconda del contesto. Inoltre, viene precisato che diversi gruppi ci conferiscono identità diverse e conseguentemente anche modelli di pensiero differenti. La genesi sociale dell’io e della personalità è basata però su alcuni presupposti fondamentali: le azioni umane e la coscienza individuale hanno un’origine sociale e non esiste, o è limitato, il libero arbitrio. Se, infatti, ci fosse un io pre-sociale, allora la nostra identità trascenderebbe almeno in parte il contesto materiale. D’altra parte, se fossimo totalmente liberi di compiere le nostre azioni senza condizionamenti dei gruppi sociali, senza che questi ultimi plasmino la nostra identità, allora bisognerebbe cercare l’origine pre-sociale della nostra libertà.

La mia argomentazione in questo testo è diretta a sostenere la costruzione sociale dell’identità e la posizione secondo cui l’io è tale solo perché inserito in una collettività. Inoltre, cercherò di sostenere i presupposti della posizione di Amartya Sen, argomentando che un’analisi dell’identità e della libertà individuale che non comprenda fattori sociali è astratta e limitata.

La prima premessa alla genesi sociale dell’io è che le azioni umane e la sua coscienza siano costruite socialmente e naturalmente, senza che venga postulata una componente trascendente nell’essere umano. Questa componente andrebbe inoltre ad unificare la nostra identità nelle varie comunità sociali, negando che agiamo in relazione a un contesto intersoggettivo, che, cambiando, modifica le nostre risposte. Già Aristotele nella Politica sostenne che l’uomo per sua natura è un’animale sociale, che si organizza in gruppi e comunità. Il filosofo di Stagira osservò empiricamente che gli uomini si organizzavano in alcune forme di comunità, seppur con regole e modalità di interazione intersoggettive differenti in relazione al contesto in cui sono sorte le comunità stesse. L’identità delle comunità è messa in relazione da Aristotele con le caratteristiche del gruppo sociale che le forma.

Nella sua analisi politica dei diversi sistemi che le comunità da lui studiate hanno adottato, Aristotele elenca a supporto di queste argomentazioni costituzioni di diverse poleis e anche di comunità non greche. L’uomo aristotelico ha come sua caratteristica naturale la socialità. Se gli esseri umani si organizzano in comunità, allora esiste una relazione tra lo sviluppo della coscienza individuale e della società? Dopo Aristotele si è tentato di dare una risposta alla domanda su questa relazione. Riguardo questa problematica un esperimento interessante è quello carcerario di Stanford organizzato da Philip Zimbardo.

Lo studioso americano cercò una correlazione tra lo sviluppo di una società autoritaria e la genesi della violenza. Infatti, se l’uomo si organizza in comunità, quando queste ultime si evolvono nel tempo, esse costruiscono alcuni schemi di potere che creano un’autorità all’interno della comunità. L’autorità, l’insieme degli schemi delle relazioni di potere emerse dall’organizzazione collettiva, genera o influenza i comportamenti umani? Secondo Zimbardo li inflenza, infatti egli organizzò un esperimento per dimostrarlo: simulò un carcere tra alcuni studenti, scelti in modo casuale e senza problemi di natura psicologica precedenti attestati. Zimbardo divise gli studenti in due gruppi, uno che simulava le guardie carcerarie e un altro i prigionieri. Nonostante i partecipanti fossero stati avvisati della falsità dei reati dei prigionieri e della natura sperimentale del progetto, la situazione sfuggì di mano allo stesso Zimbardo dopo alcuni giorni. Le relazioni tra le guardie e i prigionieri erano peggiorate e aumentarono episodi di violenza e abuso di potere. Tra i prigionieri si creò persino una consapevolezza indotta di una colpa che sapevano essere finta, ma che una determinata costruzione sociale gli attribuiva.

Questo esperimento evidenzia come l’autorità, servendosi delle relazioni sociali e dei rapporti di potere, influenza le azioni umane e plasma la nostra coscienza. La violenza è quindi un prodotto sociale, come anche molti altri comportamenti umani. Una precisazione va fatta sulla terminologia, dato che il condizionamento autoritario e la genesi sociale dell’io non sono sovrapponibili: secondo la prima premessa (ovvero che le azioni umane e la coscienza sono un prodotto sociale) tutto l’individuo è un prodotto sociale, in quanto naturalmente e inevitabilmente inserito in una comunità. D’altra parte, se alla società si sovrappone un’autorità che instaura una relazione di dominio, anche quest’ultima plasma il nostro comportamento in quanto sviluppo successivo e degenerato dei rapporti sociali. Herbert Marcuse sostenne che esiste un grado di repressione che è intrinseco alla società e un grado di logica repressiva indotta dal rapporto autoritario.

Quest’articolo è la prima parte di un testo scritto per la finale delle XXXI Olimpiadi di filosofia, intitolato: l’oppressione genera il male?


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a cura di Michele Lucivero

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