Paura, amore, empatia sono solo morte illusioni? Pensieri acerbi contro la disperazione

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immagine ansia stato emotivo del mondo
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In fondo, perché dovremmo fare azioni giuste e responsabili? Perché dovremmo avere un’etica, seguire un ideale o amare? Possiamo superare una radicale sfiducia verso l’esistenza, che ci vorrebbe legati a una concezione della vita come ansia e paura?

«Io, amico mio, non capisco la vita e la temo. Non so, forse sono un uomo malato, fuori di senno. Le persone normali e savie hanno la sensazione di capire tutto ciò che vedono e sentono, io invece ho smarrito questa “sensazione” e giorno dopo giorno la paura mi sta avvelenando. […] Sono consapevole che le circostanze della vita e l’educazione mi hanno rinchiuso in un cerchio soffocante di bugie»[1]. Queste le parole di Dimitrij Petrovič, un personaggio di un piccolo racconto dello scrittore russo Anton Čechov. Oggi un certo pensiero vuole farci credere che siamo in un periodo storico dove sono morte tutte le grandi narrazioni, illusioni sepolte dalla storia. Al di là di questa considerazione, forse oggi potremmo comprendere l’ansia del personaggio di Čechov. Resta la domanda di come affrontare questa ansia, qualunque sia la forma in cui si presenti.

Il problema è molto interessante perché non è solo una domanda prettamente filosofica, ma coinvolge tutti nelle nostre vite quotidiane e intreccia i nostri modi di vivere. In fondo, perché dovremmo fare azioni giuste e responsabili? Perché dovremmo avere un’etica, seguire un ideale o amare? Possiamo superare una radicale sfiducia verso l’esistenza, che ci vorrebbe legati a una concezione della vita come ansia e paura?

Dimitrij Petrovič ha fatto una scoperta travolgente: non esistono certezze nella vita e quest’ultima non ha uno scopo ultimo. Infatti, sente di non comprendere più le persone “sane” che pensano di capire tutto e sono sicure di sé e sostiene di avere una malattia da cui è spaventato. Lui stesso dice infatti nello stesso discorso che «ecco, io sono ammalato di paura della vita. Quando me ne sto sdraiato sull’erba e mi fisso a guardare un insetto che è nato appena da un giorno e non capisce nulla, mi sembra che la sua vita non sia altro che terrore, e in lui vedo riflesso me stesso»[2]. La vita della modernità, dopo aver portato il progresso, sembra adesso mettere paura.

A questa condizione “malata” troviamo come antidoto solo qualche illusione, oppio per la nostra coscienza, con lo scopo di liberarci da questa paura alienante. Crediamo di essere spaventati dalla vita perché scopriamo che i meccanismi del mondo ci stanno schiacciando e sentiamo la pressione dell’esistenza sul collo. Una soluzione che spesso si è trovata è il riporre fiducia in sé stessi e nelle proprie capacità: se la vita nel suo complesso non è comprensibile e non sembra avere senso, posso darle io un significato attraverso me stesso.

Il pensatore anarchico Max Stirner ha sostenuto che il principio ultimo su cui fondarsi in una società così caotica e surreale è l’io, l’ego personale. Desiderando fuggire da questa paura, allora «perché, se si aspira alla libertà per amore dell’io, non fare di questo io il principio, il centro, il fine di ogni cosa? Non valgo io più della libertà? Non sono forse io che rendo libero me stesso, non sono forse io il primo?»[3]. Per Stirner quindi l’unico valore fondante è l’io, antidoto alla malattia nichilista. Secondo questa lettura, è quindi il narcisismo a salvarci dal suicidio universale.

Prima di criticare questa soluzione, oggi molto di moda, vorrei partire da un romanzo. Il libro in questione è Falce di Neal Shusterman ed è in realtà una trilogia, ma già dal primo libro sono sollevate questioni etiche interessanti. Il romanzo è ambientato in una società nella quale esiste l’immortalità grazie a diverse innovazioni tecnologiche e mediche. Questo cambiamento ha generato una vera e propria rivoluzione che ha sconvolto il mondo e lo ha reso un posto abbastanza diverso da quello che conosciamo oggi. Il dilemma morale inizia proprio dalla scomparsa della morte come evento inevitabile, da cui scaturiscono anche problemi di ordine pratico come quello di gestire una popolazione sempre più crescente senza morti.

Nella nuova società immortale allora vengono create le “falci”, ovvero persone che uccidono per ridurre la popolazione e evitare problemi di sovrappopolazione. L’altra soluzione sarebbe stata il controllo e poi l’eliminazione graduale delle nascite, ma si preferiscono le falci anche per conservare il ricordo della morte. Quando una falce uccide una persona, scelta da lei stessa, nessuno la può curare o rianimare ed è quindi esclusa dall’immortalità. In questo contesto, lontano dal nostro mondo, si solleva il problema della morale in una società che ha abolito la morte: le falci non sono solo una necessità pratica ma anche etica, perché senza sofferenza e dolore non è possibile avere compassione ed essere “buoni”. Senza morte, e anzi in una società di dei immortali, l’essere umani perde significato: la fine della vita, o meglio la consapevolezza dell’arrivo di questa fine, è necessaria per vivere la vita da umani. È in questo contesto che Maestro Faraday, una delle falci più importanti nel libro scrive: «il mio augurio più grande per l’umanità non è né la pace, né il conforto, né la gioia. No. Quello che auspico è che dentro noi stessi qualcosa muoia ogni volta che assistiamo alla morte di un altro. Perché solo la sofferenza causata dall’empatia potrà permetterci di restare umani»[4].

Questa etica è basata sull’empatia, anche se non è idealizzata e astratta, ma sofferente e inserita nei meccanismi crudeli della realtà. Stirner ripone la sua fede nell’io e anche le stesse riflessioni pessimistiche e nichiliste ripongono un certo grado di fiducia nell’ego e nel suo essere slegato dalla società. C’è quindi qui un paradosso: Dimitrij Petrovič ha paura della vita perché ha capito che non la comprende, ha intuito che il suo io interiore è inserito nei duri meccanismi della realtà, ma crede ancora che il suo essere è separato dalla concretezza.

È per questo che si dispera: trova ciò che osserva non conforme al suo principio fondamentale, ovvero l’esistenza dell’io e il porlo come base anche morale. Crede ancora a qualche valore morale assoluto, che non trova nella realtà e quindi ha paura di questa vita. Forse, alla luce di questo, dovremmo accettare quello che siamo, e studiarlo prima di disperarci partendo da presupposti infondati, come l’esistenza di un “io” separato dalla realtà dei meccanismi sociali.

«La vita retta è quella ispirata dall’amore e guidata dalla conoscenza»[5], scrisse Bertrand Russell. Per superare la malattia decadente, l’antidoto è la presa di coscienza della nostra vita e dei suoi meccanismi (la conoscenza) e lo sviluppo liberato dei meccanismi naturali e sociali di empatia tra gli uomini, che i meccanismi del nostro modello economico-sociale hanno cercato di reprimere (l’amore). Saremo veramente in grado di costruire un’etica dell’amore e della conoscenza che non dimentichi la sofferenza umana? Non è infine l’empatia il principio per cui crediamo di commettere buone azioni, e quello quindi della nostra coscienza morale, oggi alienata?

[1] Anton Čechov, Paura, Compasso d’Oro 1996, pagg. 12-13

[2] Ivi, pagg. 12-13

[3] Max Stirner, L’unico e le sue proprietà, citato in Nicola Abbagnano, Giovanni Fornero, Paolo Rossi, Filosofia, dal romanticismo a Nietzsche, corriere della sera, Milano 2018, pag. 212

[4] Neal Shusterman, Falce, Mondadori, Milano 2022, pag. 308

[5] Bertrand Russell, Perché non sono cristiano, TEA, Milano 1998, pag. 43

 

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a cura di Michele Lucivero

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