Diceva Enrico Berlinguer…: un ricordo a 37 anni dalla morte avvenuta l’11 giugno 1984 a Padova

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Trentasette anni fa, l’11 giugno 1984, moriva a Padova Enrico Berlinguer.

In tutti questi anni, molti di quelli che hanno tradito i suoi ideali politici e morali, si sono affrettati a dichiararsi suoi eredi. Lo hanno fanno ergendosi a paladini dei principi che loro stessi hanno abiurato. Lo fanno ancora nello squallido tentativo di piegare il pensiero e l’azione di Enrico Berlinguer ai loro fini meschini. Lo fanno, soprattutto, esponenti di un partito, il PD, che non ha nulla a che fare con la storia e l’insegnamento del Segretario del PCI.

C’è molta ipocrisia in queste celebrazioni. È un’ipocrisia che risulterebbe, proprio a Berlinguer, intollerabile. Generalmente chi interviene veste la maschera triste del guitto che, con falsa nostalgia, vuole ricordare una Persona che ha segnato la Storia del nostro paese, un uomo dalla statura politica e morale assolutamente non comparabile rispetto al “compiaciuto nanismo politico” degli attuali personaggi che affollano l’ormai malinconico scenario della politica italiana.

L’adeguamento al pensiero del “realismo capitalista” di tutti quei politicanti che appaiono oggi nei teleschermi e nei giornali, la loro voglia di apparire moderni solo perché vogliono imporre “riforme” che limitano spazi di democrazia, che vogliono cancellare diritti che lavoratrici e lavoratori avevano conquistato con la lotta, che hanno ridotto il lavoro a una condanna a vita, insicuro in tutti i sensi, che hanno sparso guerre e morte in giro per il mondo seguendo le direttive dei loro padroni, la loro misera necessità di comparire comunque, la propensione di parte del ceto politico e imprenditoriale italiano alla corruzione, sono caratteristiche che nulla hanno a che fare con l’onestà morale, intellettuale e politica di Enrico Berlinguer.

Dopo la sua morte hanno trionfato gli “altri”, i suoi nemici, è riapparso chi lo osteggiava, più o meno apertamente, anche dentro il Partito Comunista Italiano. Gli hanno voluto cambiare nome e ideali. Lo hanno trasformato in un partito come gli altri, integrato in un sistema corrotto, attenti all’apparenza e al tornaconto personale o di gruppo. Così hanno trionfato l’affarismo e il malaffare, l’occupazione delle istituzioni da parte di partiti trasformati in comitati d’affari, la politica ridotta a una perenne campagna elettorale, il posto nelle istituzioni inteso solo come “mestiere” che permette di accumulare ricchezze impensabili, le promesse e gli slogan al posto di un progetto per un futuro che potesse essere di trasformazione del modello di sviluppo e della società.

Gli “altri” hanno divorato qualsiasi cosa rendendo la nostra Patria ben peggiore di quanto paventava Enrico Berlinguer nella famosa intervista sulla “Questione morale”.

E, allora, non prestiamo attenzione alle vuote celebrazioni di chi tenta di sfruttare il ricordo di Enrico Berlinguer per i propri miserabili scopi.

Ricordiamolo com’era, rileggendo le sue parole e i suoi scritti, facciamo tesoro del suo insegnamento ancora attuale. Forse capiremmo che, anche nel nostro paese, una Politica onesta è stata possibile. Una Politica seria e “nobile”. La Politica di un grande Comunista Italiano. Perché questo fu Enrico Berlinguer.

Diceva Berlinguer:

“Primo, noi vogliamo che i partiti cessino di occupare lo Stato. I partiti debbono, come dice la nostra Costituzione, concorrere alla formazione della volontà politica della nazione; e ciò possono farlo non occupando pezzi sempre più larghi di Stato, sempre più numerosi centri di potere in ogni campo, ma interpretando le grandi correnti di opinione, organizzando le aspirazioni del popolo, controllando democraticamente l’operato delle istituzioni. Ecco la prima ragione della nostra diversità.”

”Noi pensiamo che il privilegio vada combattuto e distrutto ovunque si annidi, che i poveri e gli emarginati, gli svantaggiati, vadano difesi, e gli vada data voce e possibilità concreta di contare nelle decisioni e di cambiare le proprie condizioni, che certi bisogni sociali e umani oggi ignorati vadano soddisfatti con priorità rispetto ad altri, che la professionalità e il merito vadano premiati, che la partecipazione di ogni cittadino e di ogni cittadina alla cosa pubblica debba essere assicurata.”

“La questione morale non si esaurisce nel fatto che, essendoci dei ladri, dei corrotti, dei concussori in alte sfere della politica e dell’amministrazione, bisogna scovarli, bisogna denunciarli e bisogna metterli in galera. La questione morale, nell’Italia d’oggi, fa tutt’uno con l’occupazione dello Stato da parte dei partiti governativi e delle loro correnti, fa tutt’uno con la guerra per bande, fa tutt’uno con la concezione della politica e con i metodi di governo di costoro, che vanno semplicemente abbandonati e superati. Ecco perché dico che la questione morale è il centro del problema italiano.”

“Noi restiamo convinti che per rinnovare noi stessi e spingere gli altri a rinnovarsi dobbiamo mantenere ben netti e riaffermare i caratteri che ci contraddistinguono e ci fanno diversi. Bisogna infatti che, in linea di partenza, sia dispersa ogni illusione di una nostra possibile resa o collusione od omertà, presente e futura, verso quei metodi di gestione tra i partiti e tra questi e il governo e le istituzioni e la vita economica e la società, fino alle degenerazioni che stanno corrodendo le fondamenta della nostra repubblica.”

“La lotta, la pressione di massa saranno sempre necessarie. Certo si può immaginare un mondo nel quale la politica si riduca solo al voto e ai sondaggi; ma questo sarebbe inaccettabile perché significherebbe stravolgere l’essenza della vita democratica.”

“Noi comunisti siamo stati e dobbiamo essere i primi assertori di una politica di rigore, di serenità e di severità in ogni campo: nella vita economica e sociale, nella convivenza civile, nello studio e nel lavoro, nell’attività dello stato e dei suoi apparati, nel funzionamento delle istituzioni democratiche e, non dimentichiamolo, nella vita dei partiti. Ma severità e rigore è possibile esigerli e ottenerli soltanto se a loro fondamento e come loro obiettivo stanno il progredire della giustizia sociale e il compiersi di un rinnovamento.”

“La verità è che ciò che ci si rimprovera oggi, come sempre, è che un partito del movimento operaio qual è il PCI non ha rinunciato a perseguire l’obiettivo e a lottare per un mutamento radicale della società. Si vorrebbero partiti di sinistra che di fatto si accontentano di limitare la loro azione a introdurre qualche correzione marginale all’assetto sociale esistente, senza porre mai in discussione e prospettare una sistemazione profondamente diversa dei rapporti che stanno alla base della struttura economica e sociale attuale. La principale diversità del nostro partito rispetto agli altri partiti italiani, oltre ai requisiti morali e ai titoli politici che noi possediamo e che gli altri stanno sempre più perdendo, sta proprio in ciò: che noi comunisti non rinunciamo a lavorare e a combattere per un cambiamento della classe dirigente e per una radicale trasformazione degli attuali rapporti tra le classi e tra gli uomini. Nella direzione indicata da due antiche e sempre vere espressioni di Marx: che non rinunciamo a costruire una ‘società di liberi ed uguali’, non rinunciamo a guidare la lotta degli uomini e delle donne per la ‘produzione delle condizioni della loro vita’. L’obiezione che ci viene fatta è che questo nostro finalismo sarebbe un modo di voler imporre alla storia una destinazione. No, questo è il modo in cui noi stiamo nella storia, è la tensione e la passione con cui noi agiamo in essa, è la speranza indomabile che ci anima in quanto rivoluzionari.”

“Non mi è accaduto, e questa la considero la più grande fortuna della mia vita, di seguire quella famosa legge per la quale si è rivoluzionari a 18, 20 anni e poi si diventa via via liberali, conservatori e reazionari. Io conservo i miei ideali di allora.”

“Attraverso alcune delle «riforme» di cui si sente oggi parlare si punta a piegare le istituzioni, e perciò anche il parlamento, al calcolo di assicurare una stabilità e una durata a governi che non riescono a garantirsele per capacità e forza politica propria. Ecco la sostanza e la rilevanza politica e istituzionale della «questione morale» che noi comunisti abbiamo posto con tanta decisione. Anche la irrisolta questione morale ha dato luogo non solo a quella che, con un eufemismo non privo di ipocrisia, viene chiamata la Costituzione materiale, cioè quel complesso di usi e abusi che contraddicono la Costituzione scritta, ma ha aperto anche la strada al formarsi e al dilagare di poteri occulti eversivi – la mafia, la camorra, la P2 – che hanno inquinato e condizionato tuttora i poteri costituiti e legittimi fino a minare concretamente l’esistenza stessa della nostra Repubblica. Di fronte a questo stato di cose, di fronte a tali e tanti guasti che hanno una precisa radice politica, non si può pensare di conferire nuovo prestigio, efficienza e pienezza democratica alle istituzioni con l’introduzione di congegni e meccanismi tecnici di dubbia democraticità o con accorgimenti che romperebbero formalmente l’equilibrio, la distinzione e l’autonomia (voluti e garantiti dalla Costituzione) tra Legislativo, Esecutivo e Giudiziario, e accentuerebbero il prepotere dei partiti sulle istituzioni.”

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Giorgio Langella
Giorgio Langella è nato il 12 dicembre 1954 a Vicenza. Figlio e nipote di partigiani, ha vissuto l'infanzia tra Cosenza, Catanzaro e Trieste. Nel 1968 il padre Antonio, funzionario di banca, fu trasferito a Lima e lì trascorse l'adolescenza con la famiglia. Nell'ottobre del 1968 un colpo di stato instaurò un governo militare, rivoluzionario e progressista presieduto dal generale Juan Velasco Alvarado. La nazionalizzazione dei pozzi petroliferi (che erano sfruttati da aziende nordamericane), la legge di riforma agraria, la legge di riforma dell'industria, così come il devastante terremoto del maggio 1970, furono tappe fondamentali nella sua formazione umana, ideale e politica. Tornato in Italia, a Padova negli anni della contestazione si iscrisse alla sezione Portello del PCI seguendo una logica evoluzione delle proprie convinzioni ideali. È stato eletto nel consiglio provinciale di Vicenza nel 2002 con la lista del PdCI. È laureato in ingegneria elettronica e lavora nel settore informatico. Sposato e padre di due figlie oggi vive a Creazzo (Vicenza). Ha scritto per Vicenza Papers, la collana di VicenzaPiù, "Marlane Marzotto. Un silenzio soffocante" e ha curato "Quirino Traforti. Il partigiano dei lavoratori". Ha mantenuto i suoi ideali e la passione politica ed è ancora "ostinatamente e coerentemente un militante del PCI" di cui è segretario regionale del Veneto oltre che una cultore della musica e del bello.