Coronavirus: come cambiano (e cambieranno) i nostri rapporti interpersonali

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Coronavirus, è boom di acquisto di armi negli Usa
Coronavirus, è boom di acquisto di armi negli Usa

Un tempo, prima del Coronavirus, fare la spesa era uno dei miei passatempi preferiti, da fare con calma, ammirando i colori sui banconi della frutta, assaporando con il naso, libero da costrizioni, i profumi di pane e focacce, scegliendo i prodotti in base al prezzo per risparmiare, leggendo attentamente le etichette con il fine di boicottare le aziende eticamente non irreprensibili, guardando nel carrello degli altri per capire le loro abitudini alimentari, gli stili di vita delle persone che ci circondano, ma oggi è cambiato tutto.

Ieri sono uscito a fare la spesa, l’unico lusso che possiamo permetterci di questi tempi per provare a pensare di tornare quanto prima alla normalità, e sarà perché la mascherina mi appanna gli occhiali, sarà perché il fatto di mantenere un metro di distanza dagli altri mi manda in confusione, ma devo dire che questa operazione non mi piace più, è diventata un’esperienza ansiogena, mi sono accorto di avere paura della persone.

È duro pensarlo, ma è così, io ora ho paura delle persone. Non riesco ad immaginare come debba essere difficile per chi si trova a lavorare ancora gomito a gomito con gli altri, costretto da un sistema economico che bada più al profitto dell’azienda che alla salute dei cittadini, ma nell’unica occasione più o meno libera che ci è rimasta di incrociare gli altri, cioè nei supermercati, la paura dell’altro diventa palpabile.

Appena l’ingestibile carrello stracolmo di viveri e derrate di qualcun altro si avvicina troppo a te, sei costretto a virare bruscamente, a girarti dall’altra parte, a dargli le spalle per cercare di non respirare la sua aria, che magari è contagiata dal Coronavirus e nemmeno lui o lei ne è consapevole. Solo da lontano gli sguardi si possono incrociare, perché solo gli occhi restano liberi dalla deturpazione del nostro volto operata dalla varietà di mascherine disponibili: sono sguardi attoniti, increduli, smarriti, intenti a compiere un’operazione da concludere velocemente perché è diventata veicolo di contagio e quindi altamente rischiosa.

Ci sono delle interessanti ricerche sulla distanza interpersonale che vanno sotto in nome di prossemica, le quali analizzano i gesti, i comportamenti, gli spazi e le distanze all’interno della comunicazione umana. Esse distinguono una distanza intima di 45 centimetri da una distanza personale, fino ai 120 centimetri, e poi una distanza sociale e una distanza pubblica; si tratta di spazi che variano anche a livello culturale, nel senso che esistono delle culture che accorciano di molto quella intima, come quella araba, e altre che la dilatano notevolmente, come quella giapponese, almeno così riferiscono gli studi interculturali.

Ebbene, una delle conseguenze della diffusione globale del Coronavirus, che è giunto ormai perfino in ogni singola isola sperduta degli oceani Pacifico, Indiano e Atlantico, sta nel fatto che per legge si è stati costretti ad annullare sia le differenze culturali sia le differenze tra le varie tipologie di relazioni, imponendo, ormai noi saremo costretti a dire d’ora in poi per DPCM (Decreto del presidente del consiglio dei ministri), una distanza interpersonale di 1 metro, circostanza che, alla lunga, potrebbe condurre anche a ridisegnare e livellare i comportamenti umani e sociali su tutta la superficie del pianeta Terra.

E, allora, per ovviare alla paura degli altri, si ripiega nella situazione più congeniale, si torna a casa e si tira un sospiro di sollievo, qui si è al sicuro anche del Coronavirus. Le mura di casa sono diventate il modo per sconfiggere l’angoscia di un pericolo diffuso, di un pericolo che è veicolato dall’altro, che è dappertutto perché cammina con le gambe di coloro che sono all’esterno, di cui non conosci le frequentazioni, gli spostamenti, fossero anche fratelli, sorelle, genitori, cugini, che vivono in altre abitazioni e sui cui è legittimo dubitare. La casa, invece, è sicura, almeno dal contagio del virus, ed è bello riscoprire quella dimensione casalinga, vivere finalmente l’affettività in maniera piena, prolungata, impegnandosi, come si vede ormai dappertutto nei social, a preparare pietanze insieme ai bambini, a giocare, a parlare, accedendo finalmente alla distanza intima.

Eppure, non riesco a non pensare in questi giorni, per una personale predisposizione alla tragedia, lo ammetto, a tutti quei difficili rapporti familiari che si reggevano su una condivisa separazione, pur vivendo sotto lo stesso tetto, delle esistenze. Penso a chi tra lavoro, corsetta, calcetto e cena con colleghi conduceva una vita tutto sommato serena, in equilibrio, limitando al minimo le frequentazioni familiari al fine di far funzionare tutto, e oggi si ritrova in una clausura forzata che rasenta la prigionia esistenziale di esseri umani costretti, fino a nuove disposizioni del DPCM, all’infelicità.

È chiaro che si tratta di una situazione temporanea, un mesetto o due (dipende da come rispetteremo le regole anti Coronavirus del DPCM) e poi torneremo alla normalità, ma se non dovesse trattarsi proprio di un mesetto? È chiaro che l’unico modo per neutralizzare definitivamente il virus è iniettarci un siero, un vaccino e tornare alla normalità, ma se non riuscissimo a trovare il vaccino?

E se tutto ciò dovesse protrarsi a lungo, diciamo anche per diversi mesi, anni, con ritorni di fiamma, recidive e recrudescenze provenienti da altre zone del mondo? Chissà se sarà l’economia a scoppiare per prima o le relazioni familiari.

Io penso le seconde e adesso capisco perché gli americani, che sicuramente mi battono in quanto a tragicità nella visione del mondo, si siano precipitati a comprare armi.

(Qui la situazione ora per ora sul Coronavirusqui tutte le nostre notizie sull’argomento, ndr)