Acqua granda, il vescovo Pizziol: «53 anni fa passai la notte in soffitta mangiando uva passa»

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«In quei terribili momenti vivi l’acqua minuto per minuto, la guardi mentre sale, senza sosta inesorabilmente. Mentre vedi che il livello aumenta ti chiedi: Come farò? Dove andremo? Ci aiuteranno? Sono tragedie che ti fanno vedere la provvisorietà della vita, i nostri limiti». Il vescovo Beniamino – che abbiamo incontrato in Curia – è vicino ai veneziani in questi giorni infiniti, faticosi, drammatici. L’acqua ha invaso tutto, dopo 53 anni la città è di nuovo indifesa e ferita: due morti, danni milionari, le lacrime del sindaco Brugnaro, le polemiche del Mose. Non la vedevamo così dal 4 novembre 1966. Quello del Vescovo non è solo un senso astratto di comprensione, ma una partecipazione diretta di un uomo che sa, che ha vissuto in prima persona. Il memorabile giorno dell’ ”acqua granda” a Venezia – quando il livello raggiunse i 194 cm – Pizziol aveva 19 anni, viveva nel capoluogo da 9 anni.

Eccellenza che cosa ricorda di quel giorno?

«I ricordi sono nitidissimi, sono tornato indietro di 53 anni. Mio padre era tecnico del comune e gli avevano dato in affitto un appartamento al piano terra, in zona San Giobbe, dove oggi c’è l’Università di Economia. Era un venerdì, quella mattina ero stato dal sarto per provarmi la veste talare che mi sarebbe servita per la vestizione in seminario dell’8 dicembre. Tornando a casa l’acqua cominciava a salire. Mi “rifugiai” sopra la scalinata della stazione che in breve tempo si allagò completamente. Rientrai a casa grazie ad un passaggio in “sandolo”, una barca dal fondo piatto. L’ingresso della casa era già allagato. L’acqua salì così velocemente che non facemmo in tempo a mettere in salvo gli elettrodomestici: il frigorifero, la stufa. Speravamo nel detto sie ore a cresse, sie ore la cala. Purtroppo non andò così. Nel primo pomeriggio il forte vento di scirocco tenne fermo il livello dell’acqua che sei ore dopo raddoppiò.  Passammo la notte in soffitta, mangiando uva passa.  Fu l’unica volta in vita in cui vidi il volto di mia mamma tirato, preoccupato. La donna forte che conoscevo aveva paura. Erano gli anni del boom economico, dopo tanti sacrifici cominciavamo a stare bene e il suo pensiero era, “qui dobbiamo ricominciare daccapo”. L’esodo dei veneziani cominciò allora.  Eravamo 150 mila, adesso non raggiungono i 60 mila».

Il dramma è che adesso se ne andranno anche i pochi rimasti.

«Il rischio c’è. Nel 1966 l’acqua si ritirò in breve tempo. La mattina dopo ricordo che c’era un sole meraviglioso. Portammo fuori gli indumenti e gli oggetti bagnati per asciugarli al sole. La grossa differenza è che questa volta l’acqua non è defluita subito. È ritornata, alta, per giorni. Temo che questo sia un ulteriore colpo per i veneziani che sceglieranno di affittare ai turisti la casa e di andarsene».

Il Mose poteva evitare la tragedia.

«Le catastrofe naturali ci sono state, ci sono e ci saranno. Venezia per 900 anni ha resistito, c’era un equilibrio. Poi sono cominciati i primi interventi, fino alla decisione – tra mille dubbi – del Mose. Sono trascorsi 16 lunghi anni per cosa? I veneziani sono accomunati da un senso di sfiducia. Per il Mose ci vorrà ogni anno un’enorme cifra per la manutenzione ordinaria. La natura ha un suo “corpo”, ha pregi, ma anche dei momenti in cui si ribella. L’uomo dovrebbe essere in grado di gestire  o, quanto meno, di limitare i danni. Qui sembra che dal 1966 si sia fatto nulla, o molto poco. Non dimentichiamo, poi, che l’acqua respinta dalle paratie del Mose crescerà dalla parte del litorale. Mio fratello (che abita a Cavallino Treporti, casa natale del Vescovo ndr) è preoccupato. Nel 1966 l’acqua allagò i campi coltivati con alberi da frutto. Furono distrutti tutti. Dal 1966 non ho più assaporato le pesche degli alberi dei nostri campi».

Che rapporto ha con la laguna?

«Ricordo la pesca, il nuoto, l’acqua era una “sorella”, la mia compagna di giochi. Ho imparato ad andare in bicicletta sul bagnasciuga. Quando avevo la tosse “pagana” alle 4 di mattino la mamma mi portava in riva al mare, respiravo a pieni polmoni; ricordo il fresco, l’odore di salmastro. Stavamo lì finché sorgeva il sole, poi si tornava a casa, colazione e a scuola».

Per la seconda volta la basilica di San Marco ha subìto importanti danni.

«La cripta è stata allagata e con lei tutte le tombe dei Patriarchi. L’acqua ha coperto parte dei pavimenti preziosissimi, unici al mondo. Il problema è che l’umidità sale e, tra qualche anno, potrà staccare i mosaici. Ricordo quando piazza San Marco (l’unica che a Venezia si chiama piazza, tutte le altre sono “campi”) era dei veneziani. Da bambino giocavo a pallone con gli amici, facendo attenzione ai vigili. Usavamo una palla di pezza, non era pericoloso. Giovanni XXIII, il cardinale Roncalli, negli anni ‘50 a Venezia, la sera usciva a passeggiare in piazza San Marco. Conosceva alcune lingue straniere e si intratteneva con i veneziani e qualche turista. Ricordo la magia del luogo. Oggi ci sono solo turisti. All’epoca li vedevamo nel periodo estivo. Poi con il benessere è cominciato il turismo, in tutte le stagioni. L’unico tempo morto era da febbraio a marzo, ma poi è arrivato anche il Carnevale…».

In questi giorni ha sentito il Patriarca Moraglia, ha chiamato amici?

«Ho scritto al Patriarca e l’ho incontrato. Gli sono vicino. Ho chiamato anche il parroco della parrocchia di San Trovaso, dove sono stato parroco per 15 anni. Per fortuna l’acqua non è arrivata in chiesa. Sono rimasto a Venezia per 64 anni, la sento mia, conosco ogni angolo, le calli, le fondamenta, riconosco i volti degli abitanti al telegiornale. Sento un forte senso di solidarietà, un profondo smarrimento per la continuità dei disagi, sento vicino il testo del diluvio universale. Dopo 40 giorni Noè prima manda il corvo, poi manda la colomba che torna con un ramoscello di olivo. Lì capisce che le acque si sono ritirate e l’asciutto emerge. Le acque si ritirano – l’immagine è viva davanti ai miei occhi – e così nasce la speranza di una vita che può ricominciare».