Le “sardine” senza bandiere: parliamoci noi con le bandiere e cerchiamo l’unità senza veti

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Le sardine e le bandiere
Le sardine e le bandiere

Premetto che è sempre bello e positivo vedere le piazze piene di persone che cantano Bella ciao. Premetto anche che, di questi tempi, vedere migliaia di persone che si dichiarano antifascisti non è cosa da poco e va tenuto in considerazione. Specialmente in un paese che sta perdendo la memoria storica e che tende ad accomunare qualsiasi ideale nel tentativo palese di cancellare, si badi bene, non il fascismo ma chi si è opposto ad esso e che lo ha combattuto anche con le armi e tuttora lo contrasta con la ragione.

Premetto, infine, che mi risulta stravagante assumere titoli dal regno animale piuttosto che da quello vegetale (quercia, asino, ulivo … ma questo è un mio pensiero personale che poco ha a che fare con i contenuti). Qualcosa si deve pur considerare in quel movimento delle “sardine” che oggi ha così tanto successo. Ci sono molte somiglianze con altri movimenti sorti in questi ultimi decenni spesso solo per contrastare il potente di turno.

Ci ricordiamo il “popolo viola” contro Berlusconi? E tutti quei movimenti della “società civile” che si opponevano a leggi ingiuste promosse generalmente dalla destra al potere? Movimenti durati qualche mese o al massimo qualche anno, comunque troppo poco tempo. Una cosa lega tra loro questi movimenti con quello delle “sardine” ed è il loro distanziarsi dai partiti, da quelle forme libere e organizzate di cittadini che dovrebbero essere costituzionalmente uno dei pilastri della nostra democrazia.

Certamente la maggioranza delle organizzazioni politiche, specialmente dopo la nascita della seconda repubblica e la trasformazione dei grandi partiti di massa sostanzialmente in comitati d’affari (con conseguente cancellazione, presunta, delle ideologie), non si è fatta voler bene né stimare dai cittadini (prova ne sia il progressivo allontanamento dalle urne elettorali). Ma da questo a non sapere (o non volere) distinguere chi fa politica per passione e la fa in una organizzazione e chi considera la politica un mestiere e si associa a chi crede sia il potente che gli possa garantire un certo benessere, c’è qualcosa di stonato.

Partiamo dal concetto che nessuno vuole mettere il cappello a nessuno e che nessuno deve farlo e, allora, perché non si può ragionare non tanto su come muoversi contro il nemico di turno (sia esso anche il peggiore mostro che si possa avere) ma sul “che fare” per modificare lo stato di cose di presenti. Per invertire la rotta, cioè, verso una presa di coscienza che fa a pugni con l’indifferenza e che ci permette di costruire il progetto di una società nuova, migliore e più umana rispetto all’attuale.

Così bisognerebbe parlare senza pregiudizi con tutti, chi crede che i simboli, non solo dei partiti ma anche degli ideali politici e sociali, siano qualcosa di antiquato e chi, invece, li considera parte integrante della propria vita e emblemi del riscatto sociale e collettivo di interi popoli. In definitiva quanti di quelli che hanno scritto la Costituzione alla quale le “sardine” si richiamano, hanno combattuto sventolando le bandiere che oggi vengono rifiutate dalla “piazza delle sardine”?

Perché non si deve avere memoria di questo? Il rosso della bandiera che è stata “fatta allontanare” a Firenze (dal palco: “Via le bandiere. Siamo un fenomeno democratico, senza simboli né bandiere. Non vogliamo un simbolo a questa bellezza e voi non ci toglierete questa cosa. Via le bandiere! Via le bandiere! Via le bandiere! Senza violenza! Rispettiamo la piazza. Rispettiamoci tra di noi. Siamo stanchi dell’odio. Non ci combattiamo tra di noi, per favore“) è, da secoli, il colore della ribellione e della lotta per la libertà.

E la falce e il martello sono i simboli del lavoro. Chi li porta orgogliosamente nelle piazze e nelle manifestazioni non vuole imporre niente a nessuno, vuole solo dimostrare un’appartenenza che significa anche una vicinanza a quei movimenti che, almeno potenzialmente, hanno ideali e obiettivi che possono essere condivisi. Perché scacciare quelle bandiere e, invece, innalzare i simboli dell’Unione Europea? Perché quello della UE è un simbolo contro il sovranismo e il populismo mentre quello storico del movimento dei lavoratori è considerato “divisivo”? Ma, si sappia, che è un simbolo internazionalista che ha unito i lavoratori e le lotte per il loro riscatto in ogni paese.

Questa differenza di trattamento è, forse, una precisa scelta di campo (un tempo si sarebbe detto “di classe”) o un “errore di gioventù”? Un “fenomeno democratico”, se unitario, significa anche saper rispettare idee, simboli e bandiere che hanno avuto (ed hanno) un ruolo fondamentale nella costruzione della nostra democrazia che oggi viene messa in pericolo dalla recrudescenza di fascismo, razzismo, xenofobia. Cose che, chi si dichiara far parte di “un fenomeno democratico senza simboli né bandiere” e chi, invece, sventola la bandiera rossa, combattono con forza e determinazione.

Quindi, parliamoci e rispettiamoci. E soprattutto cerchiamo assieme di lottare per qualcosa e non solo contro qualcuno. Questa seconda pulsione, troppo di moda e soprattutto più “facile” da far capire rispetto alla prima, essendo legata alle fortune o alle sfortune dell’avversario, generalmente porta al progressivo “dimagrimento” del movimento stesso. Lo abbiamo visto troppe volte per non essere pessimisti. Cerchiamo di lavorare per costruire qualcosa di unitario “per” e non “contro”.

I problemi che si devono affrontare sono molteplici. Scegliamone qualcuno e lottiamo per risolverlo. Quello della sicurezza nel lavoro, per esempio, è fondamentale e nessuno lo sta affrontando con la determinazione e la forza necessaria. Come fondamentale sarebbe porre al centro del dibattito politico se i risultati dell’innovazione tecnologica debbano essere di chi lavora o di accumula ricchezze con la finanza o sfruttando il lavoro altrui. Se, in definitiva, sono un bene collettivo di tutti o privato di qualcuno. Parliamoci e cerchiamo l’unità per ottenere qualche risultato, senza prevaricazioni e senza veti.

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Giorgio Langella
Giorgio Langella è nato il 12 dicembre 1954 a Vicenza. Figlio e nipote di partigiani, ha vissuto l'infanzia tra Cosenza, Catanzaro e Trieste. Nel 1968 il padre Antonio, funzionario di banca, fu trasferito a Lima e lì trascorse l'adolescenza con la famiglia. Nell'ottobre del 1968 un colpo di stato instaurò un governo militare, rivoluzionario e progressista presieduto dal generale Juan Velasco Alvarado. La nazionalizzazione dei pozzi petroliferi (che erano sfruttati da aziende nordamericane), la legge di riforma agraria, la legge di riforma dell'industria, così come il devastante terremoto del maggio 1970, furono tappe fondamentali nella sua formazione umana, ideale e politica. Tornato in Italia, a Padova negli anni della contestazione si iscrisse alla sezione Portello del PCI seguendo una logica evoluzione delle proprie convinzioni ideali. È stato eletto nel consiglio provinciale di Vicenza nel 2002 con la lista del PdCI. È laureato in ingegneria elettronica e lavora nel settore informatico. Sposato e padre di due figlie oggi vive a Creazzo (Vicenza). Ha scritto per Vicenza Papers, la collana di VicenzaPiù, "Marlane Marzotto. Un silenzio soffocante" e ha curato "Quirino Traforti. Il partigiano dei lavoratori". Ha mantenuto i suoi ideali e la passione politica ed è ancora "ostinatamente e coerentemente un militante del PCI" di cui è segretario regionale del Veneto oltre che una cultore della musica e del bello.