Tiziano Treu, Affari e Finanza intervista presidente vicentino del Cnel: gig economy è una risorsa ma ora occorre la contrattazione

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«Il lavoro tramite le piattaforme digitali è un fenomeno che ha preso tutti di sorpresa In California è letteralmente esploso, e ora si sta diffondendo rapidamente in tutto il mondo- L’Italia non farà eccezione. Ma per tutelare i lavoratori della gig economy, per dare loro dignitose tutele previdenziali e assicurative, oggi assenti, non si deve solo aspettare e sperare che i legislatori o i giudici li dichiarino dipendenti. Bisogna subito avviare una contrattazione nazionale per tutelarli, usando quella parte del Jobs Act che consente ancorale collaborazioni in settori che richiedono particolari esigenze produttive e organizzative». Tiziano Treu, presidente (vicentino, ndr) del Cnel e ministro del primo governo Prodi, non vede il riconoscimento giuridico della dipendenza di quei lavoratori come una soluzione a portata di mano. Tutt’altro.

Eppure, professor Treu, quella subalternità sembra sempre più spesso evidente.

«Non c’è dubbio che in molti casi vi sia il massimo controllo delle aziende delle piattaforme su quel lavoratori, che diventano a tutti gli effetti vittime dell’algoritmo. Le dirò di più: le classifiche dei rider con cui le aziende stabiliscono chi è più o meno efficiente, affidabile o veloce, esistono e come. E se non funzioni, ti cacciano su due piedi. Però bisogna considerare due fatti. Primo: che non tutti i lavoratori delle piattaforme sono uguali, alcuni di loro vogliono restare autonomi e non desiderano affatto il rapporto di dipendenza. Quindi non è neanche giusto applicare a tutti lo stesso trattamento. Secondo: per gli altri, quelli economicamente dipendenti, è difficile dimostrare la subalternanza sul piano giuridico. La legge dice che i collaboratori, per essere considerati dipendenti, devono svolgere un lavoro continuativo organizzato dal committente in tempi e luoghi di lavoro identificabili, e questo non avviene per i fattorini della gig economy. Così si spiega la sentenza di Torino che ha dato torto ai rider di Foodora».

Ma si può sempre cambiare la legge e dichiarare dipendente per esempio chi lavora con un solo committente.

«Sì, lo diceva la legge Fornero del 2012, ma vedo molto difficile tornare a quella norma».

E allora, quali soluzioni restano?

«Lo stesso Jobs Act ci dà una possibile soluzione: in settori con particolari esigenze produttive e organizzative (e potrebbe essere il caso delle piattaforme digitali) le collaborazioni sono ancora ammesse, ma devono essere disciplinate con accordi collettivi nazionali firmati dai sindacati più rappresentativi».

E questo che cosa significa?

«Che i sindacati possono e devono far partire la contrattazione collettiva peri lavoratori delle piattaforme, anche se sono collaboratori e non dipendenti, chiedendo per loro le tutele essenziali sul terreno della salute, della sicurezza e della previdenza».

Ma In passato, i cococo, molto più numerosi di adesso, non hanno avuto le tutele necessarie. Non è così?

«E vero, ma intanto alcune di queste tutele sono state rafforzate, soprattutto sul terreno previdenziale. Le altre andranno conquistate appunto attraverso la contrattazione con le aziende delle piattaforme».

I sindacati dicono di voler inquadrare I gig worker nel contratto nazionale della logistica.

«Dal punto di vista settoriale, sarebbe giusto. Ma quel contratto è fatto per i lavoratori dipendenti, non per i collaboratori. I sindacati non devono aspettare o sperare chele leggi o le sentenze dichiarino la loro dipendenza sul piano giuridico».

Come si muovono gli altri Paesi?

«Nel Regno Unito, le sentenze hanno riconosciuto una nuova figura, il worker, non dipendente ma neppure autonomo, con una serie di tutele a cominciare dal salario minimo. Anche negli Stati Uniti è la giurisprudenza a dettar legge, e lo fa in modo più creativo che da noi. Lo sa quante cause hanno promosso gli autisti di Uber in California? 400 mila, una enormità. Ma i loro avvocati non chiedono la qualifica di dipendenti, reclamano invece quattro precise forme di tutela: salario minimo, protezione anti-infortuni, rimborsi spese e previdenza. In Francia è intervenuto il legislatore, ma anche in questo caso non ha voluto distinguere gli autonomi dai dipendenti: ha semplicemente assicurato ai lavoratori delle piattaforme una serie di tutele che prima non avevano. Mi sembra un atteggiamento molto più realistico che attendere un riconoscimento giuridico che difficilmente potrà vedere la luce».

di m.rx. , da la Repubblica Affari e Finanza