Chiesa Cattolica: tradizione sì, tradizionalismo no

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A Vicenza ogni tanto riaffiora il tema della tradizione e del tradizionalismo nell’ambito della Chiesa Cattolica o in qualche sua derivazione, come il gruppo noto per il nome del suo fondatore i “lefebvriani“, che hanno anche nella diocesi berica dei sostenitori e dei seguaci. Purtroppo su questo tema vi è spesso molta confusione, anche perché del termine “tradizione” si è impossessata l’analisi sociologica, che considera il termine solo nella chiave di lettura di tramandare gli usi e i costumi di un tempo e la loro più o meno precisa rievocazione da parte di gruppi folkloristici o di qualche singolo o gruppo che rievoca a proprio uso e consumo, anche tra pareti domestiche, la nostalgia per quanto si compiva nel passato.

Esiste del termine tradizione un altro significato e più importante, ed è quello che dal passato porta all’attualità qualcosa che è sempre vivo e ciò non è un semplice ricordare. Si avvicina a quanto chiamiamo “classico” in molti ambiti, ossia ciò che non tramonta mai e che è sempre e comunque attuale.
Nel cristianesimo, per riferirci solo alla Chiesa cattolica in questo articolo, la tradizione nel suo pieno significato è una delle sue principali caratteristiche. Infatti, nei Vangeli è ben chiaro che i fedeli seguono e continuano a seguire in tutti i secoli quello che fu indicato dal Fondatore, cioè una Tradizione, che è costituita principalmente da due punti. Il primo espresso nel Vangelo di Luca (11,1-4): “«Quando pregate, dite: Padre, sia santificato il tuo nome,…“. Il secondo espresso dai vangeli di La Sacra Bibbia – Matteo 26:26-29; Marco 14:22-25; Luca 22:19,20 è il punto centrale di tutto il cristianesimo: “…Questo è il mio corpo che è dato per voi; fate questo in memoria di me.
Le parole pronunciate da Gesù in lingua aramaica furono poi traslate in quella greca, poi in quella latina e successivamente possiamo dire in tutte le lingue del mondo, costituendo, di là dei suoni linguistici, la tradizione più forte.

Nel corso dei secoli questi due elementi fondamentali della tradizione non hanno subito variazioni e nei Messali che si è avuto modo di consultare mai vi sono espressioni diverse. Non a caso, nel 1744 Francesco Argelati nella sua Storia del sacrificio della Santa messa (Firenze, P.G. Viviani) alle pagine 1 -2 afferma: “La sostanza del Sacrifizio della s. Messa, quale consiste nella Consecrazione, nell’Oblazione e nella Consumazione dell’Ostia, secondo che l’istituì il nostro amoroso Redentore, non viddesi mai mutata, nè accresciuta dalla nostra Santa Chiesa…

Con chiarezza l’Autore aggiunge che per “svegliare nei circostanti una Meditazione della passione di Cristo sono state istituite delle cerimonie che sono andate con il tempo variando“. Nel caso della Messa l’ultima variazione delle cerimonie contenute nel messale romano che precedono e seguono la Consacrazione è del 1971 ad opera del papa Paolo VI. In precedenza il messale in adozione risaliva al 1570 edito dal pontefice Pio V, ma modificato successivamente fino alla modifica del 1962, voluta da Giovanni XXIII, che introduceva la menzione di San Giuseppe e la Comunione dei Fedeli all’interno della Messa e non come cerimonia quasi “a parte”. Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e papa Francesco, fanno riferimento al messale del 1962 e ai suoi precisi canoni.
Ricordiamo che la Fraternità Sacerdotale San Pio X fondata nel 1970 dal vescovo francese M. Lefebvre (1905-1991), sospeso a divinis dal 1976 e scomunicato da papa Giovanni Paolo II il 30 giugno 1988, usa un messale precedente al 1962, quello promulgato da Benedetto XV, che continuò l’opera di Pio X, intesa a ripulire l’edificio liturgico “dallo squallore dell’invecchiamento“; cosa proseguita anche da Giovanni XXIII. Paolo VI riformò il messale nel 1971, alcune variazioni furono introdotte da Giovanni Paolo II.
Con papa Benedetto XVI con un suo Motu proprio ha liberalizzato l’uso del messale del 1962 per tutti i sacerdoti e in particolare là dove vi fosse un gruppo di fedeli che desiderasse seguire la Messa secondo i canoni appunto del 1962. Questa Messa, detta erroneamente “tridentina” è diventata il riferimento dei cosiddetti “tradizionalisti”. Ma giustamente il compianto don Pierangelo Rigon che promosse nella diocesi vicentina ad Ancignano-Sandrigo l’uso del messale del 1962 la chiamava semplicemente “messa in latino” che, secondo quanto precisato da papa Benedetto XVI è una delle forme di preghiera liturgica-eucaristica presenti nella Chiesa Cattolica. Questa è la tradizione, che continua nelle forme diverse, ossia quella del 1962 e quella del 1971.
Non si tratta di seguire questa indicazione: “Chi vuole la Messa di Paolo VI segua la freccia a sinistra; chi vuole la Messa di Pio V segua la freccia di destra.“, ambedue non hanno alcuna valenza politica in sé, che viene data loro da chi politicizza perfino il sacro e il santo. A questa prospettiva appartengono diversi gruppi di tradizionalisti, che fanno della tradizione un sistema rigido, come indica appunto il termine usato, analogamente a comunismo, fascismo, totalitarismo ecc.

Altri gruppi di tradizionalisti finiscono con la critica ai sacerdoti, ai vescovi e perfino a papa Francesco, accusato addirittura di eresia e nel legarsi ad ogni piccolo formalismo, ad esempio: “Se non c’è la patena… non si può celebrare Messa“, Come se all’Ultima Cena esistesse questo oggetto. È ben noto che il tradizionalismo finirebbe perfino con il prescrivere a Gesù Cristo come istituire l’Eucaristia. Per non parlare poi della cura d’anime, compito dei sacerdoti, dei vescovi e del papa, che i tradizionalisti invece intendono non solo indicare, ma prescrivere ai preti, come accaduto di recente ad Arzignano.

In fondo questo tradizionalismo finisce, ahimè, nel formalismo, spesso leguleio, e talora perfino nell’estetismo di maniera, dove conta di più un pizzo chiacchierino o una vecchia pianeta che non la centralità del sacrificio eucaristico. In questo modo la tradizione finisce nel tradizionalismo ed è bene che non sia seguita.