Il proprio stipendio, l’ottusità di classe e gli arrivi dall’Africa

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Pubblicato l’1 settembre alle 23.36, aggiornato il 2 alle 9.52. Delle sette nazioni europee che si spartivano l’Africa all’inizio del secolo XX°, Francia e Inghilterra facevano la parte del leone occupando i due terzi del continente. Le contraddizioni introdotte dall’Europa tra i delicati sistemi sociali primitivi fanno dell’Africa una terra di forti contrasti. Il suo suolo e il suo sottosuolo sono tra i più ricchi del pianeta, ma i suoi stati sono in tutto e per tutto dipendenti e tributari delle nazioni più sviluppate. Pur essendosi in apparenza ritirati dalla guida politica, gli europei (ma poi anche nord-americani e asiatici) continuano ad influenzare la vita dei giovani stati africani.

 


Fomentano guerre tribali, impongono dirigenze corrotte, saccheggiano il sottosuolo, derubano e affamano le popolazioni. Chi sono? Sono gli stessi che governavano ieri. Perciò avanti a tutti, Francia e Inghilterra.

L’onda migratoria che sale dall’Africa è in minima parte causata dalle guerre, di più dalla fame e dalla povertà, ma in massima parte è generata dalla pubblicità costante con cui le democrazie europee promuovono i loro sistemi politici e sociali. I paesi meglio considerati dai migranti non sono quelli al confine del nuovo mondo, ma piuttosto quelli lontani, sottovento all’esodo, in splendido isolamento come le isole britanniche e la penisola scandinava. Questi ultimi, fiduciosi nella distanza geografica e nelle politiche di accoglienza dei paesi di primo approdo, continuano a confermare la teorica disponibilità di asilo e l’integrazione nelle proprie frontiere. Nei fatti però scaricano ogni responsabilità sui paesi più prossimi al continente africano, dei quali non apprezzano le resistenze e le reazioni “egoistiche”.

Per molto tempo la narrazione dominante è stata quella migrazionista, che si è avvalsa di un’evidente prova fisica a sostegno: le gambe. La narrazione asserisce che le popolazioni non hanno steccati e reticolati, che da tempo immemorabile l’uomo colonizza un pianeta senza frontiere. Questa tesi si oppone a quella sovranista, che considera invece inviolabili i confini nazionali, e protegge le leggi e le politiche endogene da quelle imposte dall’esterno. I sostenitori interni della prima tesi, i cosiddetti “buonisti”, che tacciano i secondi di razzismo e fascismo allo stesso modo dei paesi lontani dagli approdi, sono quelli non minacciati dall’ingresso dei migranti, e il cui inserimento non comprometterebbe la propria casa, il proprio lavoro, le proprie garanzie sociali.

Ma se sulle coste libiche sventolassero diplomi di laurea e attestati di lingua italiana limpidissimi, sono certo che gli stessi che oggi si percuotono il petto per le angustie degli africani, li lascerebbero affogare e inciterebbero a cannoneggiarli. Purtroppo, quando i migranti saranno arrivati in Italia, occuperanno i quartieri dei poveri, ruberanno le loro biciclette, insidieranno le loro donne, e se cercheranno un impiego contenderanno i loro lavori.

Gli esiti della lotta di classe dal dopoguerra in poi, ma soprattutto negli ultimi quarant’anni, svalutando il lavoro manuale hanno prodotto una società divisa: una classe dirigente che nasce totalmente in patria e una operaia importabile da fuori. L’attacco costante al lavoro, alla sua capacità di ascensore sociale, ha costruito un ceto di garantiti inamovibili che mal sopportano la richiesta di totale cittadinanza che viene dai ranghi inferiori. Le pretese salariali, di welfare, diritti e effettiva parità politica, nonché di compimento della carta costituzionale, dimostrano che una classe operaia reperibile totalmente in casa propria è troppo costosa. Una che viene da fuori, docile, ignorante, riconoscente, costa molto meno e ha il vantaggio di non insidiare mai, nemmeno in terza generazione, il livello sociale del ceto padrone.

Già! Poiché coloro che hanno per campione Macron – tanto ipocrita da essere addirittura scomodo – non hanno nessuna intenzione di procedere ad un’effettiva integrazione dei nuovi venuti. Tengono gli immigrati in quartieri emarginati dove questi possono riprodurre i loro stili di vita, e dove, dopo generazioni, allevano ancora il loro rancore verso una società che non ha mantenuto le promesse. Il progetto dei dominanti, dopo aver voluto una Repubblica fondata sul “salti chi può” invece che sui diritti e sul lavoro, è quello di trasformare definitivamente le classi in caste, senza alcuna mobilità sociale.

Purtroppo l’agone politico etichetta facilmente le posizioni ideologiche e, a seconda della convenienza, le addita come pericolose derive del pensiero o le degrada a innocue e libere opinioni. Il fatto è, che vi sono delle verità di classe che vanno a confluire nel parlamento sociale e politico, troppo difficili da scardinare, poiché emanate dalle comodità e dalle garanzie, dalla realtà intima del proprio ceto, e che danno luogo perciò a delle corrispondenti “ottusità” di classe.

La contestazione che più frequentemente si fa al progetto di importazione di manodopera per diminuire il costo del lavoro, è: perché in Europa vi sono posizioni differenti sullo stesso tema migratorio? Allora è opportuno spendere due parole.

I paesi di Visegrad e in genere quelli dell’est, hanno una composizione sociale più simile a quella italiana degli anni ?60 e ?70. Il disprezzo per il lavoro manuale e l’indice di Gini (indice della disuguaglianza di reddito) non hanno raggiunto i livelli dell’Europa occidentale. Le loro società sentono ancora di essere indipendenti dalla richiesta di manodopera e rifiutano l’innesto di quella straniera. Al contrario, i paesi occidentali (Francia e Inghilterra su tutti) subiscono gli esiti di una lotta di classe matura e, importando per decenni manodopera straniera, delocalizzando le imprese e stabilendo inique politiche salariali, hanno raggiunto una profonda differenziazione sociale che consente loro di reperire nella disuguaglianza in sito la manovalanza occorrente ai lavori inferiori. Questi lavoratori sono il frutto di generazioni di stranieri nati in occidente. Per Francia e Inghilterra, ma anche per Belgio, Olanda e Germania il surplus africano è inutile, possono fare a meno di quest’ultima invasione. Oggi, questi paesi, devono sopportare semmai il peso delle loro politiche inique: l’instabilità delle periferie piene delle eccedenze dei propri imperi, le rivolte periodiche di interi quartieri ghetto che si ribellano al sistema dominante, e la reazione furiosa degli integralismi.

L’Italia è fra i due mondi una terra di mezzo. Ha una profonda differenziazione sociale allo stesso modo degli altri paesi d’occidente, una marcata disuguaglianza salariale, e un forte disprezzo del lavoro manuale. La popolazione autoctona non percepisce più il lavoro mal pagato come mezzo d’emancipazione sociale, e da decenni le invocazioni di giustizia salariale cadono nel vuoto. Si è aperto allora uno squarcio, un’assenza di manodopera in intere filiere della produzione agricola, industriale e dei servizi alla persona, un’offerta di lavoro che si approvvigiona dal mercato clandestino. Ma la lunga eredità dei partiti social-comunisti e della chiesa Cattolica fanno dell’Italia una peculiarità del sentire politico occidentale. Un sentire che oggi si ostina nella richiesta popolare di reddito, di un reddito di cittadinanza svincolato dal lavoro. Un sentire che si scontra con l’enorme peso della ricchezza privata italiana, che al contrario vorrebbe un innesto massiccio di migranti a sabotare il progetto di cittadinanza descritto nella Costituzione, che vorrebbe impedire la rifondazione del patto sociale.

Qualunque sarà la dimensione economica che toccherà all’Europa e dunque all’Italia nel prossimo futuro, è bene che gli ipocriti nostrani e forestieri tengano a mente che si è avviato un processo, una rivoluzione all’interno della nostra tribù che sarà portata a termine anche a costo di tornare alla divisa nazionale, a costo di congelare il debito, di tassare il patrimonio. Ecco, queste sono le parole che aspetto da Di Maio e da un vero governo a 5 stelle.