La corsa per il ballottaggio

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“Alla fine resteremo in due, come gli Highlander” _  diceva Grillo _  “…io e il nano”. E invece alla fine resterà la Lega, il M5S e la Lega. Il 5 marzo, il giorno appresso alle elezioni, allo scadere del silenzio elettorale, per tutti i partiti è ricominciata la campagna elettorale, per tutti, salvo che per i 5 Stelle. Una leggera tregua da parte di Salvini che a disagio in giacca e cravatta ha calcato per la prima volta i corridoi di Montecitorio, immediatamente contrattando con Di Maio i Presidenti di Camera e Senato.
A ben guardare, l’ingombro dell’alleato di coalizione già si vedeva allora – la scelta di Fraccaro, rampante grillino delle tre Venezie, non era piaciuta all’egemonia dello spadone e al ragno di Arcore, meglio spostare il compiacimento politico più giù, a Napoli, dove il Movimento aveva già avuto un plebiscito. L’elezione di Fico non era stata una ripicca alla bocciatura di Paolo Romani, ma una meditata scelta elettorale che scongiurava il pericolo di una penetrazione pentastellata al nord. Poi, dopo aver piazzato la berlusconiana che ha difeso la buonafede del padrone sull’identità di Ruby come nipote di Mubarak, e completata la formazione degli uffici di presidenza, Salvini ha cominciato il teatrino, esponendo agli italiani un enunciato inconcepibile: non è colpa mia se Di Maio e Berlusconi si escludono a vicenda e nessuno dei due fa un passo di lato. Un enunciato che sta bene solo davanti ad una telecamera compiacente, ma che nasconde la verità fin troppo superficiale, e cioè che è lui, Salvini, ad essere soggetto a Berlusconi (soprattutto per motivi che se esplicitati causerebbero ricorso alle vie legali), e ad aver abbracciato la sua alleanza e la sua politica, non gli altri. Il partito di Renzi stava nel frattempo relegato in orgoglioso ammusonimento, trincerato in altro enunciato inconsistente: chi ha vinto le elezioni deve fare il governo, noi stiamo all’opposizione; tacendo che a causa della loro legge elettorale non aveva vinto nessuno, e che non potevano stare all’opposizione di qualcosa che non c’era. Ma gli occhi di tutti i partiti erano fissi sui sondaggi che vedevano un avanzamento della Lega a scapito di FI, partito allo spudorato servizio del padrone, e che il tentativo dei 5 Stelle di dare un governo al paese persino con le forze nemiche li stava penalizzando, e arrestava l’emorragia di voti piddini. L’unico a non fare campagna elettorale è stato il Movimento, l’unico a credere che si potesse avere un governo politico anche con questa legge elettorale. E Di Maio ha creduto anche di essere un interlocutore speciale di Salvini, quando il corsaro verde invece parlava con tutti, come dimostra oggi la telefonata di Renzi preoccupato per un “ballottaggio” Lega-M5S. L’area di consenso che si apre a sinistra del Movimento è ancora grande, e farsi sfuggire un elettorato fin troppo deluso dal PD e dalla sua politica è un vero peccato. Dare tempo a Renzi e adepti renziani di restaurare il partito prima delle prossime elezioni, e ricostituire ancora un serbatoio di consensi che confidano in una missione della sinistra, imbrogliati dalle sue battaglie civili e dimentichi di quelle sociali, sarebbe un danno per l’intero paese. Ancora peggio, lasciare che i suoi voti siano attratti dalla temperie leghista senza la mediazione del progetto sociale a 5 stelle, sarebbe un ennesimo vicolo cieco imboccato dall’elettorato italiano. Ma alla fine, quando Salvini avrà asciugato i voti dell’alleato-padrone, si porrà una scelta: il popolo italiano ce la farà a considerare la Lega e la sua classe dirigente pronte a governare? Ce la farà il sud a dare il consenso ad uno che ha travestito il simbolo territoriale ad un mese dalle elezioni? Sarà come al solito uno scontro tra due aree, una demarcazione dell’asse politico, che nonostante la cattiva informazione e le costante delegittimazioni dovrà stabilire se cade più di qua o di là, se premierà l’ansia di rinnovamento della società italiana o ne decreterà definitivamente lo stallo.