No more Hiroshima

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Imparare dalla storia. Era il 6 agosto 1945 quando, atterrita dalla distruzione di Hiroshima, l’umanità si trovò ad affrontare per la prima volta un nuovo, immenso, terrore: l’olocausto nucleare.

Poco meno di un mese prima, il 16 luglio 1945, esplodeva ad Alamogordo la prima bomba nucleare. Fu allora che Robert Oppenheimer, capo del Progetto Manhattan, pronunciò, una frase poi passata alla storia: «Sono diventato la Morte, il distruttore dei mondi». In effetti, la nuova arma garantiva un potere di distruzione immenso.
Pochi anni dopo, anche l’Unione Sovietica sviluppò le proprie armi nucleari e il mondo prese coscienza di essere davvero sull’orlo della distruzione.

Durante il periodo di ‘guerra fredda’, una parvenza di pace era assicurata da quella situazione nota come MAD (Mutual Assured Destruction – Distruzione reciproca assicurata). L’inquietante gioco di parole (‘mad’ in inglese significa anche ‘folle’), ben descrive la pazzia di quel periodo in cui più volte l’Umanità si trovò a contemplare la concreta possibilità dello sterminio, finché, nei primi anni ’90, il miglioramento delle relazioni tra USA e URSS sembrò segnare il momento in cui l’umanità avrebbe potuto tornare a respirare.

Purtroppo, sembra che l’Uomo non sappia imparare dalla Storia e, già nei primi anni del XXI secolo, i rapporti tra USA e Russia tornarono a farsi tesi e conflittuali, soprattutto a causa dello Scudo spaziale e del Trattato sulle Forze Armate Convenzionali in Europa.
Uno dei principali punti di attrito era rappresentato dall’espansione ad est della NATO, finché, nel corso del 2007, la Russia, per la prima volta dallo scioglimento dell’Unione Sovietica, ripristinò su Europa, Pacifico e Atlantico voli strategici permanenti di aerei militari a lungo raggio.
Pochi anni prima, nel 2002, un documento interno della Marina Militare Americana aveva evidenziato la tensione della situazione in Crimea e il timore russo di un’espansione ad est della NATO, e aveva indicato valide soluzioni per integrare la Russia tra gli stati occidentali. Le intenzioni erano quelle di apire la strada a uno inedito scenario di pace e prosperità.
Le cose andarono diversamente.

Per comprendere appieno l’attuale situazione è, però, necessario tornare rapidamente alla fine del secolo scorso, alla dissoluzione dell’impero sovietico.

Il 16 luglio 1990 il nuovo Parlamento adottò la Dichiarazione di sovranità dell’Ucraina, per dichiarare l’Ucraina Stato indipendente e democratico poco più di un anno dopo. I rapporti Russia-Ucraina furono, sin da subito, molto tesi soprattutto a causa di due importanti elementi di scontro: gli armamenti nucleari sovietici presenti sul territorio ucraino; e il controllo della base navale di Sebastopoli sede della flotta del Mar Nero.
Se la questione degli armamenti si rivelò rapidamente risolvibile mediante la consegna delle testate nucleari alla Russia, la questione di Sebastopoli era molto più complessa e, potenzialmente, molto più insidiosa per i rapporti tra le due nazioni confinanti perché la base rappresentava e rappresenta un asset strategico irrinunciabile per la Russia dato che costituisce la sua principale porta di accesso al Mediterraneo attraverso il Mar Nero. Nel 1997 Russia e Ucraina sottoscrissero un Trattato per la scissione della Flotta del Mar Nero in due marine distinte e indipendenti l’una dall’altra: una sotto l’egida russa, l’altra sotto l’egida ucraina.
Le cose continuarono a peggiorare finché, nel 2013, a seguito delle forti proteste filo europee contro il presidente Janukovyč, filo-russo, quest’ultimo fu costretto alla fuga con la successiva elezione di Petro Porošenko che, il 27 giugno 2014, firmava l’Accordo di associazione tra l’Ucraina e l’Unione europea, con pesanti polemiche da parte di Mosca.

A questo punto, prima di procedere con l’analisi degli eventi successivi al 2014, è necessario capire cosa, nel frattempo, era successo intorno alla Russia negli anni successivi al crollo del patto di Varsavia: la NATO avanzava verso est, con adesione di Bulgaria, Estonia, Lettonia, Lituania, Romania, Slovacchia, Slovenia, Albania, Croazia, Montenegro, Macedonia del Nord.

Non si può non richiamare la profonda spaccatura che andava delineandosi tra la popolazione dell’Ucraina occidentale, sempre più europeista e filo occidentale, e quella dell’Ucraina orientale, piuttosto ostile a una svolta europeista e spesso filo russa. Tale spaccatura si rifletteva su numerosi aspetti come, ad esempio, la contrapposizione tra cattolicesimo e ortodossia ed arrivava a riprendere elementi di propaganda risalenti all’Operazione Barbarossa.
Nel 2014 la tensione esplose con le proteste dell’Euromaidan, con il conseguente colpo di Stato che destituì Janukovic e vide l’instaurarsi di un governo nazionalista, che assunse posizioni e scelte politiche palesemente volte ad allontanare l’Ucraina dalla sfera di influenza russa: vennero abbattute statue di epoca sovietica, cambiato il nome di luoghi pubblici che evocavano il passato sovietico sostituendolo con i nomi di nazionalisti ucraini come, ad esempio Stepan Bandera. Anche la festa nazionale venne spostata dal 9 maggio, Giornata della vittoria dell’URSS sul nazismo, al 24 agosto, Giornata dell’indipendenza ucraina dall’URSS.

In questa situazione, il governo locale della Crimea rifiutava di riconoscere il nuovo governo e il nuovo Presidente ucraino, sostenendo l’illegittimità del cambiamento, mentre la Russia inviava nell’aerea proprie truppe senza insegne (i c.dd. ‘omini verdi’), a garantire il controllo del territorio e del governo locale, fino ad arrivare al referendum sull’autodeterminazione della penisola il successivo 16 marzo (referendum criticato e non riconosciuto da gran parte della comunità internazionale), in cui si registrò una schiacciante vittoria del Sì, con il 95,32% dei voti. Il 27 marzo, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite approvò una risoluzione non vincolante che dichiarò il referendum della Crimea appoggiato da Mosca non valido, e il 15 aprile, il Parlamento ucraino dichiarava la penisola meridionale della Crimea territorio temporaneamente occupato dalla Federazione russa.

Intanto, nel Donbass e in Ucraina la situazione per la comunità russa si faceva sempre più difficile.
Le autonomie concesse dai governi precedenti vennero revocate, l’insegnamento della lingua russa venne proibito e iniziarono a diffondersi episodi di grande violenza nei confronti dei cittadini di origini russe: il più celebre fu la Strage di Odessa del 2 maggio 2014, dove tra i 50 e i 150 russi vennero bruciati vivi nella Casa del Sindacato. Ispirati da quanto accaduto in Crimea, separatisti filorussi iniziarono, nel marzo del 2014, una serie di proteste nelle regioni sud-orientali dell’Ucraina, arrivando a occupare la sede dell’Amministrazione statale Regionale (RSA) dell’Oblast’ di Donec’k ed a proclamare la Repubblica Popolare di Doneck (DPR).
Più o meno nello stesso periodo iniziarono i disordini nell’Oblast’ di Luhans’k, durante i quali attivisti sequestrarono e occuparono la sede del Servizio di Sicurezza dell’Ucraina (SBU) nella città di Luhans’k; seguirono occupazioni simili nelle città di Donec’k e Charkiv. La polizia fu in grado di riprendere il controllo dell’edificio, ma i manifestanti si incontrarono nuovamente per un’“assemblea del popolo” all’esterno e invocarono un ‘governo del popolo’, chiedendo o la federalizzazione o l’incorporazione nella Federazione russa. La Repubblica Popolare di Lugansk (LPR) fu proclamata il 27 aprile 2014.

In risposta all’ampliamento dei disordini, il Presidente ucraino in carica, Oleksandr Turčynov, avviò nei primi giorni di aprile una grande operazione ‘anti-terrorismo’ contro i movimenti separatisti, offrendo l’amnistia ai manifestanti se avessero deposto le armi e venne lanciata un’operazione di contro-offensiva militare contro i ribelli nella regione. Ma ormai la rivolta era sfociata in una vera e propria guerra civile, mentre forze russe venivano mobilitate in un raggio di 10 km dal confine ucraino.

Gli scontri si ridussero, senza mai cessare, a seguito del Protocollo di Minsk, che prevedeva un cessate il fuoco bilaterale immediato, garantiva il monitoraggio e la verifica del cessate il fuoco da parte dell’OSCE, una decentralizzazione del potere, anche attraverso l’adozione di una legge ucraina su accordi provvisori di governance locale in alcune zone delle oblast (regioni) di Doneck e Lugansk (“legge sullo status speciale”), il monitoraggio continuo della frontiera russo-ucraina e la loro verifica da parte dell’OSCE, attraverso la creazione di zone di sicurezza nelle regioni di frontiera tra l’Ucraina e la Russia, il rilascio di tutti gli ostaggi e di tutte le persone detenute illegalmente, una legge sulla prevenzione della persecuzione e la punizione delle persone coinvolte negli eventi che avevano avuto luogo in alcune aree delle oblast (regioni) di Doneck e Lugansk, tranne nei casi di reati gravi, la continuazione del dialogo nazionale inclusivo, l’adozione di misure per migliorare la situazione umanitaria nella regione del Donbass, in Ucraina orientale.
Il protocollo venne poi integrato da ulteriori aggiunte volte ad assicurare un cessate il fuoco bilaterale immediato dal 15 febbraio 2015, ma con scarsi risultati. Finché, a maggio 2019, il neo eletto Presidente Ucraino Volodymyr Zelensky prometteva di porre fine alla guerra nel Donbas iniziando uno scambio di prigionieri.
Nel settembre del 2020, Zelenskyy approvava una nuova strategia di sicurezza nazionale che prevedeva più strette relazioni con la NATO e l’obiettivo di entrare nell’alleanza Atlantica.

Tra marzo e aprile 2021, la situazione iniziò a inasprirsi di nuovo, tanto che ai confini dell’Ucraina viene osservata una mobilitazione di oltre 100.000 soldati delle forze armate russe. Ulteriori truppe vennero inviate tra ottobre 2021 e febbraio 2022 e, a gennaio 2022, le forze russe al confine ucraino contavano circa 150.000-180.000 uomini, con una previsione di 250.000.

La situazione era resa incandescente da ripetute violazioni al cessate il fuoco da parte della Russia e da costanti richieste di un impegno, da parte della NATO, a non ammettere l’Ucraina tra i suoi membri e di ridurre il materiale bellico e i militari presenti nell’est Europeo.
Contestualmente, la Russia iniziava a minacciare risposte militari a quella che definisce una ‘politica aggressiva’ da parte della NATO; Stati Uniti d’America e altri membri della NATO respingevano le richieste russe ed ammonivano riguardo a sanzioni economiche ‘rapide e severe’ in caso di invasione.
A gennaio l’esercito russo era ammassato su tre dei quattro lati dell’Ucraina e il 15 febbraio 2022 la Duma di Stato della Federazione Russa approvava una richiesta al Presidente della Federazione Russa per il riconoscimento delle repubbliche popolari di Doneck e di Lugansk, poi deciso favorevolmente il 21 febbraio. Contestualmente Putin accusava il governo di Kiev di avere il progetto di sviluppare armi nucleari impiegando la vecchia tecnologia sovietica di cui sarebbe ancora in possesso e di star progettando un’offensiva in Crimea. Il 22 febbraio 2022 avanzava una richiesta, prima alla Duma di Stato e successivamente all’Assemblea Federale, per avere i pieni poteri sull’effettuare operazioni militari all’Estero. La richiesta veniva pienamente accolta sia dalla Duma che dall’Assemblea Federale. Vladimir Putin otteneva il pieno controllo delle forze armate russe, senza limiti di tempo, luogo e per qualsiasi tipo di operazione militare.

Nella prima mattinata del 24 febbraio 2022 Putin annunciava un’operazione militare nel Donbass, dando inizio all’invasione dell’Ucraina.

Oggi, dopo quasi sei mesi dall’inizio delle ostilità, continuano a giungere dall’Ucraina voci e immagini di distruzione, mentre lo spettro nucleare
Tutto il mondo segue con sgomento l’ennesimo, inutile massacro.

Nell’anniversario della distruzione di Hiroshima ci si torna ad auspicare che gli uomini possano ritrovare la ragione perché, come cantava John Lennon, «All we are saying is give peace a chance».

Stop war.

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Fonte: No more Hiroshima

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