Sergio Marchionne, Il Fatto: ha rottamato quella classe dirigente che ora lo piange

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Nel giorno della morte di Sergio Marchionne, i protagonisti del capitalismo italiano e della politica si affannano a costruire un’immagine condivisa, ecumenica, perfino nazional popolare del manager. Ma questo santino di Marchionne è completamente fasullo. Marchionne ha salvato la Fiat, ma ha distrutto tutto quello che la Fiat rappresentava per questo Paese. Perché non rispondeva a logiche di politica industriale o di ricerca del consenso, ma strettamente finanziarie, il suo (lauto) stipendio dipendeva dalla soddisfazione dell’azionista di riferimento, cioè la Exor della famiglia Agnelli e di John Elkann, non dall’impatto delle sue scelte sul Paese.

Nei 14 anni in cui ha salvato più che la Fiat il valore del pacchetto azionario di controllo di Fiat, Marchionne ha costretto la classe dirigente di questo Paese ad ammettere il proprio declino. Le grandi celebrazioni del lancio della nuova 500 a Torino nel luglio del 2007 furono scambiate all’epoca per una rinascita della Fiat di una volta, miracolosamente forte di 2 miliardi che Marchionne era riuscito a strappare a General Motors, disposta a pagare tanto pur di essere esentata dall’obbligo di farsi carico dell’azienda torinese come effetto di una opzione put. Quei giorni di festa con gli spot sugli italiani migliori e le celebrazioni sul Po a Torino erano, in realtà, l’ultima coda di un’epoca. Come dimostra il fatto che il responsabile di quella grande operazione di marketing, Luca De Meo, ha lasciato la Fiat nemmeno due anni dopo per andare in Volkswagen.

Grazie al divorzio dalla General Motors, Marchionne conquista poi la decotta Chrysler, nel 2008. E lì si comincia a capire che non sta riportando la Fiat a vecchie glorie ma in terre incognite. Negli anni dello scontro con i sindacati, in particolare con la Fiom, Marchionne ha di fatto riscritto le relazioni sindacali senza passare dalla mediazione della politica. Matteo Renzi oggi pare voglia attribuire a Marchionne l’ispirazione per il Jobs Act, quel che è certo è che l’ad di Fca non ha mai mostrato di avere bisogno della sponda di un governo.

Nel 2011 Marchionne ha certificato anche l’irrilevanza di Confindustria che ora, con un po’ di sindrome di Stoccolma, si affretta ad affermare che sì, Marchionne aveva ragione e che loro hanno imparato la lezione. Ma l’uscita di Fca dall’associazione degli industriali – prima del disastro del Sole 24 Ore – ha palesato la vera natura della associazione confindustriale: un club di aziende semipubbliche e molto romane. All’assemblea annuale ormai sono dedicati trafiletti sui giornali.

E a proposito di giornali, nel 2016 Marchionne ha chiuso la quarantennale presenza di Fiat nel Corriere della Sera: certo, poi John Elkann ha presidiato il settore dalla holding Exor con gli investimenti nell’Economist e nel nuovo gruppo Gedi, in cui La Stampa si è unita a Repubblica. Ma niente più vigilanza democratica sul Corriere che Gianni Agnellì salvò da derive finanziarie o piduiste. Oggi il Corriere è un giornale normale, con un editore quasi puro, Urbano Cairo, ed Exor ha il 6 per cento di Gedi. Forse proprio la copertura mediatica della morte di Marchionne resterà l’ultima eco di un lontano passato, quello in cui, a leggere certi giornali, le Fiat non facevano mai incidenti. In questi giorni le notizie sul reale stato di salute di Marchionne si leggevano su Lettera43 di Paolo Madron mentre l’azienda, forse per l’ultima volta, riusciva ad accreditare la versione di un semplice intervento alla spalla, incompatibile con le scelte drammatiche in corso.

Tra i vari pezzi di classe dirigente che Marchionne ha triturato nella sua marcia verso la messa in sicurezza degli interessi dei suoi datori di lavoro, ci sono anche i salotti italiani: quasi mai in televisione, rare interviste ai media domestici, vita privata riservatissima. Se si vuole trovare un momento simbolico del suo atteggiamento è l’allontanamento di Luca Cordero di Montezemolo dalla presidenza Ferrari nel 2014. Dopo una vita alla corte di Gianni Agnelli e dopo aver agevolato dalla presidenza Fiat l’ascesa di Marchionne e John Elkann, l’intramontabile campione delle relazioni viene di fatto licenziato (sia pure con 27 milioni di buonuscita) anche da una poltrona poco più che simbolica.

L’ultima rottamazione è recente, 6 marzo, dopo le elezioni: “Lega e Cinque Stelle non fanno paura, valutiamo i provvedimenti, stiamo parlando di partiti democratici”. E poi: “Paura del M5S? Ne abbiamo passate di peggio…”. In un colpo solo, Marchionne distrugge la principale argomentazione di quell’establishment che oggi lo piange, spiegando che i due vincitori delle elezioni non sono i “barbari” evocati dal Financial Times. Ma ridimensiona anche la portata rivoluzionaria dell’esecutivo gialloverde.

Se si vuole riconoscere un merito a Marchionne, è quello di aver costretto la classe dirigente italiana a prendere atto della propria crescente irrilevanza.

di Stefano Feltri, da Il Fatto Quotidiano