Dopo gli osanna a Pietro Marzotto l’altra medaglia tocca a… Quirino Traforti

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Avete letto e sentito gli articoli e i servizi in ricordo di Pietro Marzotto dopo la sua morte? Avete notato come si scrive e si afferma della grandezza del “conte”? E di come si fa capire della sua democraticità del suo essere “liberale” ma, tutto sommato, di sinistra? E avete capito che tutti gli osanna e le lodi sono, di fatto, un riconoscimento alla Marzotto in quanto impresa “vicina ai lavoratori”? Un’azienda “democratica”, paternalista, certo, ma che ha fatto tanto bene alla comunità. Scuole, servizi, mecenatismo…

Si accenna, in qualche articolo, al fatto del ’68 quando i lavoratori abbatterono la statua di Gaetano Marzotto, ma in definitiva lo si fa come “nota di colore” e quasi ci si stupisce del fatto che tanta violenza si fosse rivolta contro un benefattore. Certo, si fa capire, era il ’68 e questi atti erano all’ordine del giorno (quasi una moda).

Nulla si dice delle decine di morti per tumore della Marlane Marzotto.

Nessun accenno alla Rimar Ricerche Marzotto (l’attuale Miteni) e dell’inquinamento che produceva.

Niente dei mesoteliomi nelle fabbriche vicentine del gruppo e della relativa indagine “sparita” della quale non si hanno notizie.

Evidentemente, per la “grande informazione” non è successo niente. Per “tutti” la Marzotto è una grande azienda che tanto bene ha fatto alla società vicentina e nazionale.

Ha comprato marchi del lusso (dopo li ha rivenduti con grande profitto e qualche problema giudiziario … ma meglio non dirlo come per la Valentino Fashion Group dell’allora suo presidente Matteo Marzotto) e la Lanerossi (ma meglio non ricordare come e con quanti soldi – pochi – l’abbia “assorbita” dallo Stato).

Ha delocalizzato e licenziato centinaia, migliaia di lavoratrici e lavoratori? Sì, certo, forse, ma meglio sorvolare. Specialmente in un momento di lutto come questo.

Questa è l’informazione di oggi in Italia. Un coro unanime a favore dei padroni, dei potenti, della “gente che conta”.

Perché si, i Marzotto contano. Erano e sono padroni. E neppure tanto buoni o democratici. Come tutti i padroni erano e sono attenti solo ai loro soldi. Ma questo è normale per i padroni, non è una loro colpa. Sono fatti così. Meno comprensibili sono le lodi e la loro santificazione da parte della quasi totalità dei giornalisti e dei commentatori.

Pietro Marzotto era un padrone. Severo ma giusto (si afferma in quasi ogni articolo e servizio). Figuratevi (si dice e si scrive), era ironico e gioviale… e, poi, fece anche l’operaio nella sua fabbrica… e in nero perché non veniva pagato. Cosa si vuole di più? Bella forza, la fabbrica era della sua famiglia, era sua. Lui era un predestinato alla ricchezza e al potere. Era un padrone figlio e nipote di padroni. Era dall’altra parte della barricata rispetto ai lavoratori.

Così, penso che sia giusto leggere qualche ricordo di Quirino Traforti che scelse di stare dalla parte degli operai (non poteva fare altrimenti, spiegava, per una questione di classe e di giustizia) e che, per questa sua scelta lottò e fu licenziato quando non si lasciò corrompere.

Penso che sia giusto conoscere anche l’altra faccia della medaglia Marzotto, quella meno agiografica. Quella più realistica. Poi uno sceglie da che parte stare.

 

QUALCOSA SULLA MARZOTTO

NEI RICORDI DI QUIRINO TRAFORTI

Ditegli pure, al conte,

che lui si può tenere i suoi soldi, che io mi tengo le mie idee

 

Ogni lunedì mattina, la commissione interna si riuniva con i dirigenti. Con Destro e Fabbri ?

E mentre siamo in riunione, arrivano due guardiani che mi dicono: «Ciò, Traforti, c’è il conte Gaetano che ti vuole di sopra in direzione». «Ostia, ecco,» dico «ho contraddetto il giovane e questo è il motivo». Non sono stupido. Ho capito che deve dirmi qualcosa ? allora dico a Grifani: «vieni su anche tu, è meglio essere in due».

Sono andato su. Fa conto che fosse alto come là ? i dirigenti gli sono tutti attorno. C’era Dallara, c’era Rausse, quello di Trissino, l’ingegnere che ha messo su la fabbrica che fa mosaici alle Alte ? si, Bisazza.

Vado dentro, tutti di fronte a me. Avevo già discusso con Gaetano, perché, qualche volta, quando c’erano problemi grossi, veniva il ?vecchio?.

Allora mi fa: «è lei Traforti?». «Si, sono io» rispondo. «Io ero amico di tuo papà». «Lo so che era amico di mio papà» dico. «Era del ’94 come lui». Quando il conte faceva la cena della classe, ogni anno, mio padre andava ?a palazzo? e, poi, mio papà gli portava le beccacce, perché faceva anche quel lavoro lì ?

E, allora, mi fa: «I miei dirigenti ti devono parlare». Quindi inizia: «Corri in bicicletta, no?». «Si» rispondo «corro in bicicletta». E lui: «Mi hanno detto che ti pagano i giorni quando vai a correre, anche quando vai in trasferta». «Si» dico  io «è vero. Però, signor Gaetano, io, da Roma in su ? a Roma, Trieste e Torino, a parte Milano e altre città ho il suo nome, ?Marzotto?, qua davanti, dietro e sui pantaloncini». Questo come per dirgli ?si, mi paghi, ma ti faccio pubblicità?.

Lui ha sentito quella risposta e, allora, mi dice: «Comunque, adesso, i miei dirigenti ti devono parlare».

Si era arrabbiato. Forse è stata una brutta frase che ho detto, ma è scattato. Gli ho detto: «Si, è vero che era amico di mio papà, così vero che nel ’21 ?». Nel ’21 avevano fatto, a Valdagno, uno sciopero di sei mesi e mio papà era uno di quelli che lo dirigevano. Quei sette o otto che diressero lo sciopero furono tutti mandati a casa. Mio papà, che faceva il tintore, poi Zordan e gli altri ? Dopo i sei mesi ? mio padre è dovuto andare in Argentina da dove è tornato nel ’26. Si è sposato e, dopo, sono nato io. Mi raccontava sempre di questo fatto ?

Ti raccomando, quando (il conte Gaetano) ha sentito questo, è stato come se lo avessi pugnalato. Si è alzato e ha detto: «Adesso, qua, ti metti d’accordo con i miei dirigenti». Ed è andato via.

E, allora, lì, cominciano a farmi le solite proposte, si, insomma, di corruzione.

Se volevo andare a Manerbio, Brugherio, Pisa, Mortara ? dove volevo io ? Portogruaro ? dove volevo. Pagato. E basta lavorare, solo le corse. Ma non a Valdagno. Mi dissero: «A Valdagno deve rinunciare al sindacato e anche al Partito». E con uno stipendio che neanche ti dico. Capisci?

E, allora, io ho detto a quei dirigenti lì: «Ditegli pure, al conte, che lui si può tenere i suoi soldi, che io mi tengo le mie idee». E sono uscito dalla porta.

Questo successe nel ’53. Dopo, nel ’54, mi licenziarono come conseguenza, mi sembra chiaro. O no? Ci voleva un motivo. E quello era il motivo. Ma nel ’53 avevo l’incarico di commissario interno. E nel ’54, anche se non ero più nella commissione interna, avevo lo stesso il diritto (di non essere licenziato) perché per un anno, dopo l’incarico, si mantenevano le stesse tutele di sindacalista. Non ero licenziabile. Avrebbero potuto licenziarmi nel ’55. Ma neanche allora, se non ci fosse stato motivo ?

? e, dopo, mi hanno tolto anche il tesserino per correre in bicicletta.

 

era il ’54, maggio del ’54 … 138 operai licenziati

? E, allora, io ho invitato tutti gli operai a rimanere fuori, perché c’erano 138 licenziati ed ero fuori dalla lista. In cima alle scalette ho invitato tutti gli operai, come comunista, come sindacalista ex membro della commissione interna. Ho invitato gli operai a scioperare perché, dicevo: «se non cogliamo questa occasione ci mettono il laccio ? al collo». Sono rimasti tutti fuori. Quaranta giorni di sciopero. Si. Quaranta giorni.

Ma la mattina dopo lo sciopero, arriva la questura, la polizia ? cose grandi ? insomma. C’era Marangoni, che era il segretario nazionale dei tessili, piccolino, da poco uscito dal sanatorio. So che un poliziotto, doveva essere un sergente, un graduato, nella piazza del Municipio, gli diede un forte colpo, un pugno. Lo ha preso qua, in faccia.

C’era Tricarico, il questore di Vicenza, che mi disse: «La faccio arrestare ancora». ?Ancora? perché il giorno prima mi avevano portato in camera di sicurezza.

E, adesso, ti racconto di quando ero là, nella camera di sicurezza.

È arrivato un generale dei carabinieri o della polizia da Padova. Io ero in camera di sicurezza legato con spaghi, cinghie e tutto quanto. E dissi al carabiniere di guardia, tale Ferrari Giordano: «mi portate dentro l’Unità, il Giornale di Vicenza e un pacchetto di sigarette ? altrimenti quando vengo fuori farete i conti con me». E, ti assicuro, me li hanno portati.

Inizia l’interrogatorio, allora vogliono che ? e io mi sono seduto. «Si metta in piedi!» mi dice (il generale). «No!» dico io «Io sto seduto». «Lei si deve alzare, per rispetto dei …». «Io sto seduto!». Lui da una parte e io dall’altra (del tavolo). Io sono rimasto seduto e gli ho detto: «io sono un invalido di guerra, non posso alzarmi». Stop e basta ? E allora ha cominciato a dire: «Ma lei è ancora un ragazzo giovane» (avevo 25 anni) «lei sta rovinandosi la vita ? sa che ? si ? sono problemi seri, mettersi davanti così ? cioè ? provocare scioperi ? manca la produzione ? manca ?».

Un discorso tutto così, in poche parole, per convincermi a rinunciare.

E, allora, io gli faccio: «Tricarico, esimio questore, questa mattina, davanti alla fabbrica» gli dico «non sono stato mica io, ma lei a tradire gli operai e le dico il perché». Stavo parlando del giorno prima, quando mi avevano fermato. «Sono venuti da Vicenza tutti i carabinieri, la polizia e lei, forse non se ne è neppure accorto, in cima alle scalette della portineria, che ha tre porte, ha detto al maresciallo: ?Apra i cancelli che io faccio caricare gli operai e li mandiamo a lavorare?.» Gliel’ho detto davanti al generale dei carabinieri. «Lei, ieri mattina, ha detto queste parole. Lei è al servizio di Marzotto, non al servizio degli operai ? e voleva proprio farci capire che è agli ordini di Marzotto quando ha detto: ?apra i cancelli e faccio mandare al lavoro gli operai?. Ma il maresciallo non ha aperto i cancelli ? in quell’occasione ?» gli ho detto «? in quella no, non l’ha fatto».

Allora, ad un certo momento,  il generale (io, intanto, sentivo un rumore che proveniva dall’esterno ? ho saputo dopo che ci saranno stati 1500 operai che avevano riempito tutta la piazza della caserma) mi disse: «La lasciamo libero, a condizione che vada a casa e non si faccia più vedere». E io risposi: «è meglio che mi tenga dentro, perché quando esco faccio il mio dovere». 

Sono usciti in due o tre lasciandomi là con un carabiniere e dopo sono tornati e mi hanno detto: «Adesso la lasciamo libero». Io non sapevo ancora niente, sentivo gridare ?

Ma, dopo, ho visto e ho capito tutto: la piazza era piena di operai.

E, queste, sono ?robette? che non dimentichi.

?

Tutti gli uomini, le donne no, ma gli uomini, in particolare i licenziati, ogni giorno, mezzogiorno e sera, andavano a mangiare dai dirigenti della fabbrica. E questa è una novità vera e propria. Andavano a mangiare dai capi, dai direttori e dai dirigenti della fabbrica. Andavano in gruppi di sette, otto. E non è uno scherzo. Questa è la verità. Storia. In che anno? Nel ’54.

 

IL SESSANTOTTO

 

? Nel ’68 c’è stata l’occupazione della fabbrica. Io ero consigliere comunale e segretario della sezione di Valdagno del Partito Comunista. In consiglio comunale abbiamo approvato una delibera di andare a Roma con i capigruppo. Democrazia Cristiana, Partito Socialista, Partito Comunista ? non ce n’erano altri? ? si, anche i Liberali. Allora siamo andati giù (a Roma) io, il sindaco Visonà, la vicesindaco Diana Urbani, Sergio Perin, e un certo Soldà per i liberali che sostituiva Ferrio. Siamo andati giù in cinque. La fabbrica era stata occupata non per il rinnovo dei contratti ma per l’assegnazione dei macchinari. Si passava da una a due macchine per addetto. E, in aggiunta, c’era la crisi. Chiaro?

Insomma, siamo andati giù al ministero. Il presidente del consiglio era Rumor.

Mi ricordo che sono venuti a Roma, insieme alla nostra delegazione, pelizzari e Busetto Franco che, allora, era segretario del gruppo comunista alla Camera. Per i socialisti c’era Brodolini a Roma, perché era ministro del lavoro. C’era un deputato di Venezia (di cui non ricordo il nome ? non so se fosse uno di un movimento proletario, qualcosa del genere) che, ad ogni costo, non voleva che andassimo giù perché ?possono andare i democristiani, i socialisti, i liberali ? i comunisti no, non devono andare?. Gli ho detto: «Sta attento, bambino, col voto unanime di tutto il consiglio comunale abbiamo deciso di andare giù tutti al ministero dell’industria, dal ministro del lavoro, dal presidente del consiglio. E quando abbiamo approvato la delibera» dico «c’era la piazza piena così come la sala consiliare. Io mi sono impegnato, insieme agli altri partiti. Non mi tiro indietro, neanche ? e tu puoi gridare ? fai quel cazzo che vuoi». Ti puoi immaginare ? Proprio i comunisti si tirano indietro. «Sarebbe un controsenso» dissi «non se ne parla neppure». Sulla delibera era scritto che venissero alla riunione anche i deputati della provincia di Vicenza. Allora venne anche Vittorio Marzotto. Ma lui è andato per conto suo.

Bene, arriviamo a Roma. Era venuto anche quello là, quello della baruffa, che continuava: «Io vi impedisco di andare». Allora Franco Busetto disse: «andiamo da Berlinguer, parliamo con lui e sentiamo». Allora andiamo subito alle Botteghe Oscure, al primo piano.

Entriamo da Berlinguer e ci salutiamo: «Ciao», «Ciao». Busetto comincia: «Guarda, c’è il problema di una delibera ? che a Valdagno hanno occupato la fabbrica ?». Allora Berlinguer disse: «Sentite compagni, c’è un sacco di cose da seguire, vi capisco, ma chi conosce bene il problema, chi segue questi problemi è Di Giulio. Parlate con lui».

Scendiamo da Di Giulio che ci chiede di spiegargli la questione. Quello di Venezia gli racconta (una cosa che mi infastidisce) ?che non è possibile andare ? che è un controsenso ? andare insieme con i padroni ?» e tutte quelle stupidaggini. Ad un certo punto Di Giulio dice, rivolgendosi a quello là: «Compagni, ha ragione Traforti. Voi andate alla riunione e portate la linea politica del Partito». E così è stato.

Mi ricordo di una cosa. Rumor è venuto fuori da una porticina come quella là e ci siamo seduti attorno a una scrivania. Tutto intorno c’erano arazzi e poltrone di lusso. La prima cosa che Rumor ci ha detto è stata: «Cari concittadini, vi porgo il saluto mio e del Parlamento, però devo dirvi anche alcune cose. Conosco il vostro problema, ma di problemi come il vostro ne ho centinaia al giorno». Come dire che non avrebbe fatto niente.

Dopo siamo andati da Brodolini al ministero del lavoro e, là, ho baruffato col segretario del ministero che ci ha fermato. Era una ?mezzasega?, grande così, sarà stato un metro e venti, non di più ? e grosso così. Ci ha detto queste testuali parole: «Qua comando io. Il ministro è solo un rappresentante. Sono io, quello che conta qui, il segretario del ministero. Brodolini oggi c’è e domani non c’è. Ma io ci sono oggi e anche domani». Ci credi? Mi sono arrabbiato di brutto.

Finito il battibecco, torniamo in albergo perché c’era l’incontro con Brodolini ma non con tutta la delegazione. Brodolini aveva voluto solo me e Sergio Perin. Siamo andati fuori a mangiare.

A un certo punto Brodolini se ne è uscito con questa frase: «Cari compagni, siete stati dei pazzi ad occupare la fabbrica».

Io gli ho detto: «Compagno Brodolini, cosa stai dicendo? Che abbiamo sbagliato a occupare la fabbrica? Ma tu, dov’eri? Tu sei qui a Roma» continuavo «non sei venuto a vedere i cinque, seimila operai che non arrivano a fine mese. Dove vanno a mangiare? E tu mi fai queste affermazioni, che abbiamo sbagliato. Che gli operai hanno sbagliato a occupare la fabbrica? Cosa dovevano fare?».

Lui non sapeva più cosa dirmi. Forse pensava che fossi un socialista. C’era Sergio Perin che era diventato bianco. E, dopo, serio, quando siamo usciti, mi ha detto: «Quirino ? mi raccomando». Come a dire ?non dire quelle cose?.

?

Prima di andare a Roma, mi ricordo, ci fu un incontro con Giannino Marzotto, che allora era il presidente.

Sono andato io, Sergio Perin, Visonà, Diana Urbani e doveva esserci anche Ferrio, che era il capo del Partito Liberale e che è arrivato in ritardo. Facciamo l’incontro.

Devi sapere che nelle sale (della Marzotto) dove si fanno le riunioni c’è una pedana per il capo e gli altri si siedono attorno, così che loro (i padroni) sono sempre più in alto di chiunque.

Allora Giannino, che mi conosceva anche perché abbiamo fatto due o tre feste della classe insieme, comincia a parlare: «Qua c’è un problema» ha detto «il sindacato ha forzato, ha fermato gli operai. Non li ha fatti entrare in fabbrica usando la forza, fuori hanno fatto i blocchi».

«è stato informato male» dissi. E lui: «Aspetta che finisco, no».

Poi interviene uno, poi l’altro ? Perin, il sindaco, la Diana Urbani …

E finalmente tocca a me. Dico: «Caro Giannino. Mi dispiace ma tutto quello che hai voluto rilevare non entra nel merito dell’occupazione e dei motivi che hanno portato ad essa. Vorrei precisare una cosa: che non è affatto vero che sono stati fatti blocchi fuori dalla fabbrica per fermare gli operai perché non andassero a lavorare. Perché è dall’interno della fabbrica che sono usciti ?».

E Giannino Marzotto, gridando e battendo il pugno sulla scrivania: «A me hanno detto ?», ed è uscito dalla porta.

Paolo (Marzotto) che era presente alla riunione, allora mi ha detto: «Mio fratello, scusatelo ha la pelle ? come dire ? d’oca. Non sa più cosa fare».

Io ribatto: «Pazienza, però poteva almeno lasciarmi finire. Io posso finire l’intervento con lei ma mi sarebbe piaciuto avere di fronte Giannino».

Intanto all’una non avevamo ancora finito?

? L’occupazione è durata quasi un mese.

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Giorgio Langella
Giorgio Langella è nato il 12 dicembre 1954 a Vicenza. Figlio e nipote di partigiani, ha vissuto l'infanzia tra Cosenza, Catanzaro e Trieste. Nel 1968 il padre Antonio, funzionario di banca, fu trasferito a Lima e lì trascorse l'adolescenza con la famiglia. Nell'ottobre del 1968 un colpo di stato instaurò un governo militare, rivoluzionario e progressista presieduto dal generale Juan Velasco Alvarado. La nazionalizzazione dei pozzi petroliferi (che erano sfruttati da aziende nordamericane), la legge di riforma agraria, la legge di riforma dell'industria, così come il devastante terremoto del maggio 1970, furono tappe fondamentali nella sua formazione umana, ideale e politica. Tornato in Italia, a Padova negli anni della contestazione si iscrisse alla sezione Portello del PCI seguendo una logica evoluzione delle proprie convinzioni ideali. È stato eletto nel consiglio provinciale di Vicenza nel 2002 con la lista del PdCI. È laureato in ingegneria elettronica e lavora nel settore informatico. Sposato e padre di due figlie oggi vive a Creazzo (Vicenza). Ha scritto per Vicenza Papers, la collana di VicenzaPiù, "Marlane Marzotto. Un silenzio soffocante" e ha curato "Quirino Traforti. Il partigiano dei lavoratori". Ha mantenuto i suoi ideali e la passione politica ed è ancora "ostinatamente e coerentemente un militante del PCI" di cui è segretario regionale del Veneto oltre che una cultore della musica e del bello.