Esportare la democrazia… e il fondamentalismo. “Filosofia in Agorà”. Confronto tra Sartori, Canfora, Nussbaum e lo scomparso Jean-Luc Nancy

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Giovanni Sartori, Luciano Canfora, Jean-Luc Nancy, Martha Nussbaum
Giovanni Sartori, Luciano Canfora, Jean-Luc Nancy, Martha Nussbaum

È apparso sul «Corriere dalla Sera» del 21 agosto 2021 un articolo a firma di Giovanni Sartori, per la verità scomparso nel 2017, dal titolo La democrazia è esportabile (non sempre e dovunque), in cui vengono messi insieme alcuni pezzi di testi, il più recente dei quali è del 2015, per sostenere che la democrazia liberale è certamente un prodotto occidentale, ma in alcuni casi è esportabile, soprattutto se non impatta con religioni come l’islamismo, termine occidentale che, tra l’altro, non dovrebbe essere usato per parlare, in generale, della religione islamica.

Lasciamo momentaneamente da parte il discorso sulla presunzione da parte di noi occidentali di voler esportare il nostro modo di intendere la politica e la gestione della società, nella convinzione di poter separare l’ideale della democrazia liberale, che sarebbe ritenuto sempre valido e inattaccabile, dalle storture in esso prodotte, negando la continuità, la prossimità e anche la mera possibilità dell’insorgenza nel suo seno di forme deteriori di gestione del potere.

La questione è che, adottando uno sguardo storico un po’ più ampio, non si comprende come ci si possa ritenere capaci di cotanta “scienza politica” e vantarsi di aver inventato la democrazia liberale, al punto di avere la presunzione di esportarla, nel momento in cui proprio in Occidente si sono generati fondamentalismi, integralismi, nazionalismi, dittature, genocidi e altri “prodotti politici” immediatamente e concretamente esportati poi in numerosi paese con cui siamo venuti in “contatto”, dall’America Latina all’Africa per finire all’Asia. Senza parlare, sempre in una prospettiva che tenga conto della dimensione storica, del fatto che gli inneschi di ben due Guerre mondiali provengono proprio dal nostro Occidente, padre della democrazia liberale.

E, allora, la  nostra tesi è che sicuramente la democrazia liberale, così come noi la intendiamo in Occidente, è esportabile, come, peraltro, qualsiasi altra forma di governo e come qualsiasi altro prodotto in una sistema-mondo sempre più interconnesso, proprio come è possibile bere Coca-Cola proveniente dal Pakistan a Cuba, nonostante il bloqueo. Tuttavia, ciò non è, tout court, garanzia di un corretto funzionamento, nel senso che non è affatto lineare il percorso che dalla democrazia liberale, impiantata su un qualsiasi altro sistema di gestione dello Stato di tipo oligarchico, liberticida, ecc., porti ad una distribuzione equa di diritti civili e sociali per tutti, circostanza che evidentemente si è verificata storicamente in molti Stati occidentali, sebbene non in tutti nello stesso modo.

Di conseguenza, la nostra tesi si fonda sul presupposto che, nel momento in cui si profila all’orizzonte la possibilità di una democrazia liberale, è certamente garantita, in potenza, l’espressione libera di diverse e numerose posizioni politiche congeniali allo stesso sistema liberale e democratico. Tuttavia, l’insieme delle espressioni politiche consentite in un sistema politico liberale coprono un ventaglio estremamente ampio di visioni del mondo e di valori, comprese quelle che mettono in discussione soprattutto la componente liberale della stessa democrazia.

Senza scomodare Karl Popper e il suo “paradosso della tolleranza”, secondo il quale una società tollerante, cioè la democrazia liberale, è destinata a soccombere sotto i colpi dell’intolleranza tollerata di gruppi estremisti, oppure Ernst Böckenförde e il suo “dilemma”, secondo il quale lo Stato liberale, secolarizzato e democratico, vive di presupposti che non può garantire, se abbandona il riferimento a componenti morali e religiose, è chiaro che all’interno della democrazia liberale convivono diverse anime culturali, sociali e religiose che fanno riferimento a diversi valori, molti dei quali segretamente o patentemente contrari ad un sistema di governo che punti ad una concreta ed effettiva equa distribuzione di diritti e di doveri.

I precedenti storici dovrebbero essere sufficienti, a nostro avviso, a corroborare la tesi secondo la quale la democrazia liberale nasce in Occidente, con tutte le sue sfumature, ma con un nucleo valoriale piuttosto comune, caratterizzato da una determinata matrice culturale condizionata da una storia e da una religione peculiari, al punto da tollerare e ammettere come orizzonti sempre possibili sia il nazionalismo, che è un tratto distintivo europeo, sia il fondamentalismo religioso, che è un marchio di fabbrica statunitense.

Ad ogni modo, per restare nell’ambito ideale della disquisizione sulla “scienza politica”, disciplina accademica che Giovanni Sartori ha avuto il merito di introdurre in Italia negli anni ’50 presso l’Università di Firenze, si potrebbe chiamare in causa la perplessità di Luciano Canfora, quando in Democrazia. Storia di un’ideologia[1] e, in toni più polemici in Critica della retorica democratica[2], mostra il dominio ideologico incontrastato che gli USA hanno di fatto strappato a tutto l’Occidente dopo la Guerra Fredda nell’interpretazione messianica del principio di democrazia liberale come miglior forma di governo da esportare, ovviamente secondo i dettami americani, cioè nel segno palese dell’oligarchia finanziaria, della plutocrazia, della timocrazia imposta dal capitalismo, che ha saputo ben sfruttare la narrazione sulle “magnifiche sorti e progressive” della democrazia liberale.

Ed era del 2008 un libretto dal titolo Verità della democrazia[3] del filosofo francese Jean-Luc Nancy, scomparso lo scorso 24 agosto, il quale rimarcava, come Canfora, la deriva della cosiddetta “democrazia liberale”, appiattitasi su una democrazia rappresentativa, formale e borghese, frutto di una filosofia occidentale del Soggetto che, inevitabilmente, conduce sia a livello individuale sia a livello collettivo a chiusure identitarie, egoismi, sovranismi e nazionalismi, tutti elementi esportati e innestati altrove contestualmente all’ideale di democrazia liberale.

La democrazia liberale, dunque, non è un concetto esclusivamente politico, non è una mera e vuota (ideologicamente) procedura di ingegneria gestionale del potere, libera da determinati gravami storici, valoriali, etici e religiosi, ma è un prodotto specifico dell’Occidente, per cui bisognerebbe chiedersi, piuttosto, che cosa abbiamo esportato altrove, quando lo abbiamo fatto, insieme alla democrazia liberale, e con la scusa della democrazia liberale, nella convinzione che, ad esempio, l’Islam fosse incompatibile con la democrazia?

Giovanni Sartori ritiene che l’esperimento dell’esportazione abbia, in fondo, funzionato in Giappone e in India, eppure nel 2007 la filosofa Martha Nussbaum scrive Lo scontro dentro le civiltà. Democrazia, radicalismo religioso e futuro dell’India – che sicuramente costituisce una risposta più circostanziata della nostra alla tesi di Sartori – in cui afferma: «Nel pogrom del 2002 nel Gujarat, scopriamo l’impiego di ideologie fasciste europee da parte di estremismi induisti a giustificazione dell’assassinio di cittadini mussulmani innocenti»[4].

Ci sembra strano, infatti, forse a causa delle estrapolazioni condotte sui suoi testi, che nell’articolo di Sartori non sia menzionato il fatto che il Giappone sia stato il terreno fertile negli anni ’30 di una dittatura fascista sul modello di quelle nostre, autentiche, italiana e tedesca, a dimostrazione che, di fatto, si può esportare di tutto. Così come ci sembra strano che Sartori non faccia riferimento al fatto che in India non esisteva una religione prima che arrivassero gli occidentali, bensì un dharma, cioè un fascio inclusivo di credenze spirituali, così come non esisteva un termine hindutva che definisse un’ideologia induista fondamentalista, contraria all’idea di una nazione multireligiosa e multietnica[5]. Il concetto di religione, e con esso il suo legame con la politica, così come il fondamentalismo religioso approdano in India solo a partire dal Novecento, sotto la spinta della modernizzazione occidentalizzante.

Ecco, per tutti questi motivi, sia storici sia teorici sia legati agli effetti collaterali in termini di vite umane sacrificate, pur nella convinzione che si possa ormai esportare di tutto, abbiamo delle concrete ragioni per dubitare, ancora una volta, dell’opportunità di andare per il mondo, in zone evidentemente già destabilizzate dal punto di vista politico, culturale ed economico, ad innestare la nostra democrazia liberale.

[1] L. Canfora, Democrazia. Storia di un’ideologia, Laterza, Roma-Bari 2004.

[2] L. Canfora, Critica della retorica democratica, Laterza, Roma-Bari 2002.

[3] J.-L. Nancy, Verità della democrazia, Cronopio, Napoli 2009.

[4] M.C. Nussbaum, Lo scontro dentro le civiltà. Democrazia, radicalismo religioso e futuro dell’India, il Mulino, Bologna 2009, P. 17

[5] Cfr. E. Pace, P. Stefani, Il fondamentalismo religioso contemporaneo, Queriniana, Brescia 2000.


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a cura di Michele Lucivero

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