Grandi opere, Luca Canale: costi infiniti, benefici chissà?

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Cicero a Torino per la Tav
Cicero a Torino per la Tav

In questi giorni assistiamo – ci scrive Luca Canale e partecipiamo ad un grande dibattito in merito alle Grandi (e meno grandi) Opere che da nord a sud sono in costruzione, previste, progettate, auspicate, spesso osteggiate. A mio parere il punto dirimente non è se tutte queste opere debbano essere fatte o meno, ognuna fa caso a se sulla base di valutazioni locali, nazionali ed internazionali, ma bensì quanto costano in rapporto al benessere aggiuntivo che la realizzazione dell’opera potrebbe portare alla Collettività.

Nel 2015 la CGIA di Mestre (struttura che non possiamo decisamente considerare come contraria alle opere) produsse uno studio (che vi allego) analizzando semplicemente i costi e lo stato di avanzamento di 27 Grandi Opere previste nella Legge Obbiettivo del 2001, su dati CIPE e Camera dei Deputati, quindi decisamente ufficiali e ben sedimentati.

A fronte di una previsione di spesa di 82 miliardi circa, al 31/12/2014 ne erano stati spesi 223, con un fabbisogno di altri 134 miliardi ancora da finanziare per quelle ancora incomplete. Per fare un paragone si tratta di 10-15 miliardi (quasi il 2% del bilancio dello Stato) oltre quanto pianificato che lo Stato ogni anno deve reperire, tramite nuove tasse, riduzione di servizi quali sanità, scuole, previdenza, welfare, aumento del debito pubblico e quindi degli interessi da pagare sul debito.

In questi mesi in cui si è ampiamente discusso di “zero virgola” nella legge di bilancio, se quel 2% (che non è necessariamente denaro impiegato in opere inutili, ma che comunque è un costo in più e non preventivato, come se ci fosse stata una catastrofe naturale ogni anno) fosse stato utilizzato, ogni anno, per la riduzione della pressione fiscale o la riduzione del debito? La questione è tutt’altro che filosofica, visto che si tratterebbe di analizzare se queste opere hanno funzionato da volano per l’economia reale, ovvero se l’investimento ha agito da moltiplicatore innescando un processo virtuoso, valutazioni tutt’altro che facili e di cui si potrà discutere solo tra qualche decennio.

Ma per essere più chiari, questi 10-15 miliardi all’anno sono tasse che i cittadini e le aziende devono pagare in più, mancati tagli al costo del lavoro e alla tassazione delle imprese che tutti promettono ma poi, grazie anche a questi “costi aggiuntivi” spesso rimangono lettera morta. Nessuno pretende che uno Stato sia in attivo, e ritengo che lo Stato debba considerare di procedere anche se, ad esempio, un’opera costa 10 ed il beneficio previsto è 8, se c’è un interesse superiore, ma se alla fine viene a costare 40 ed il beneficio è sempre 8, ne vale davvero la pena?

Se lo dovrebbero chiedere in primis quegli imprenditori e quelle associazioni di categoria che difendono a spada tratta queste opere, salvo poi lamentarsi, con i vari Governi che si succedono, dell’eccessivo carico fiscale e dei mancati tagli delle imposte. Parliamoci chiaro, è anche grazie a questi sprechi e a questi costi gonfiati che siamo arrivati a questo punto.

E i costi ambientali, spesso paventati dai cittadini ma evidenti dopo decenni e solo a seguito di eventuali inchieste della magistratura, come vengono (se mai lo sono stati) conteggiati?

Su qualsiasi progetto che a consuntivo viene a costare il quadruplo di quanto preventivato dovremmo porci più di qualche domanda.

Come mai i costi lievitano in questo modo? Chi ci guadagna? Il beneficio per la collettività aumenta con l’aumentare dei costi? C’è qualcuno che è responsabile?

Se queste spese servono “per creare lavoro” e “per sostenere la crescita e le imprese”, allora perché non spendiamo questi fondi per altre opere che siano ugualmente di utilità, quali ad esempio la messa in sicurezza del territorio dal punto di vista idrogeologico, la ristrutturazione antisismica delle scuole, l’efficientamento energetico degli edifici pubblici?

Forse perché su questo tipo di interventi è più difficile “fare nero”? Forse perché fa più notizia, dal punto di vista del consenso e della visibilità, costruire una nuova strada che mettere in sicurezza una scuola?

E di chi è la responsabilità se viene fatta una progettazione troppo superficiale?

Non sempre e solo dei progettisti, a mio parere, visto che questi devono comunque rispondere a commissioni, controllori, commissari e quant’altro (di nomina quasi esclusivamente politica) che dovrebbero valutare, verificare ed infine approvare.

Forse delle continue varianti in corso d’opera, dovute sia a criticità riscontrate durante i lavori (e non sufficientemente valutate in fase di progettazione), sia a richieste delle amministrazioni locali che cercano, con queste varianti, di “portare a casa qualcosa”?

Ovviamente una volta impiantati i cantieri è quasi impossibile proporre di rinunciare all’opera, anche se i costi lievitano, ecco perché vi è la necessità di analisi, valutazioni e discussioni molto più ampie PRIMA di cominciare queste opere.

In parte si sta cercando già adesso di farlo con l’introduzione (seppur imperfetta e migliorabile finché vogliamo) di meccanismi quali l’analisi costi-benefici ed il Dibattito Pubblico, ma a mio parere tutti questi strumenti non possono essere sostitutivi di una progettazione ed una pianificazione delle opere che siano molto più aderenti alla realtà di quanto fatto finora.

Ma soprattutto manca un meccanismo efficace che identifichi e faccia pagare (anche a livello politico) eventuali responsabili. Se da un lato si pongono centinaia di vincoli e paletti alle Amministrazioni Locali, che tra “spending review”, “patto di stabilità”, Consip, Codice degli appalti etc non possono spendere i fondi che avrebbero già in cassa per opere “minori” ma forse più utili, dall’altro lato assistiamo ad un dissennato sperpero quando si tratta di “Opere Grandi”.

Concludo citando un altro studio, stavolta di Unioncamere del Veneto del 2016 altra istituzione che non si può tacciare di essere “per il No”), nel quale si cita, tra le concause della crisi delle due Popolari Venete, il “sostegno a progetti “di sistema” con scarse possibilità di rientro (anche a lungo termine), privi di garanzie reali (autostrade, CIS, pedemontana, investimenti immobiliari semi-pubblici…), sollecitati dallo “spirito del branco” che contraddistingue i CdA e il management delle popolari “di territorio”. “

E’, purtroppo, fin troppo facile tracciare (politicamente) una riga sulla carta geografica e dire “si passa di qua!”, ma poi le conseguenze si pagano sempre, e non solo a livello economico.

Ma è, a mio parere, ancora più grave, in questi anni di crisi economica e di ristrettezze di bilancio, mentire o nascondere ai cittadini come vengono spesi i soldi di tutti.

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