Il messaggio del presidente Mattarella, alcune considerazioni a partire dal fatto che lui non è Pertini…

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Il Presidente Sergio Mattarella
Il Presidente Sergio Mattarella

Ieri, come è consuetudine, il Presidente Sergio Mattarella ha rivolto un messaggio di fine anno a reti unificate. Un messaggio pieno di buoni propositi, di speranze e quant’altro. Un discorso nel quale il Capo dello Stato ha magnificato i tanti pregi italiani, le “eccellenze” e qualche difetto da migliorare. Per molti aspetti un discorso ovvio che non si è discostato dalla tradizione. Un messaggio “costruito” in maniera da evitare polemiche e critiche, distante da quelli che faceva il Presidente Sandro Pertini che non perdeva l’occasione di farci conoscere il suo pensiero sui temi caldi dell’epoca (che poi sono anche quelli che dovremmo affrontare anche oggi).

Sandro Pertini e una delle sue frasi
Sandro Pertini e una delle sue frasi

Ricordiamo le sue parole sul massacro di Sabra e Chatila e quello che disse sulla questione palestinese ancora oggi irrisolta. Parole che evitavano i normali luoghi comuni e che si ergevano come pilastri importanti di una critica a una politica internazionale portata avanti dalle potenze occidentali che, allora come adesso, era dimostrazione di imperialismo e disuguaglianze tra i popoli.

Nel discorso di Mattarella, pur non criticabile nel suo “ecumenismo” (e la generale approvazione sostanziale da parte di tutte le forze politiche ne è la prova), non si trova niente di quelle “non ortodossie” care a Pertini ma qualcosa di assolutamente non inquadrabile in quel “realismo capitalista” che ormai è un pensiero unico culturale ben radicato nella nostra società. Certo ci sono richiami al futuro al ruolo dei giovani, alla solidarietà, alla pace, al lavoro … ma è proprio su questi due ultimi punti che vorrei concentrare qualche critica perché proprio su quelle questioni ho rilevato alcune “dimenticanze” che, in un discorso che ha toccato quasi tutto lo scibile umano, mi sono parse “colpevoli”.

Non si può parlare di “politica di pace” della nostra nazione e legarla alle missioni internazionali delle nostre Forze Armate. Cosa facciamo in giro per il mondo? Per fare alcuni esempi:cosa fanno i nostri militari in Libia, in Afganistan, in Iraq, nei Balcani, nel Sahel? Tutti posti che hanno conosciuto bombardamenti, aggressioni e distruzione da parte della Nato e dei paesi che ne fanno parte. Siamo là a portare la democrazia o a stabilizzare e sviluppare gli interessi occidentali (delle nazioni e delle multinazionali private) sulle risorse che dovrebbero appartenere a quei popoli? Che senso ha parlare di “politica di pace” senza affrontare il tema di quanto guerrafondaia sia la Nato?

E come si può parlare di lavoro senza neppure accennare al problema della sicurezza? Questa è la solita vecchia storia. Ci si batte il petto quando qualche lavoratore muore per infortunio nei luoghi di lavoro (molto meno quando i decessi sono dovuti a malattie professionali). Lo si fa per qualche ora e qualche volta. Si dà solidarietà e si afferma che sono cose impensabili in un paese civile. Poi tutto ritorna normale. Ritorna il silenzio. Lo sfruttamento è come prima, la sicurezza rimane carente … ci si infortuna, ci si ammala, si muore. Tutto come prima, come sempre.

Allora, la “dimenticanza” del Presidente Mattarella risulta omogenea con il pensiero dominante per il quale il lavoro è sostanzialmente un mezzo per creare ricchezza di qualcuno (già ricco). Un pensiero che ci fa credere che morire sul lavoro e di lavoro sia dovuto a disattenzione o tragica fatalità. Un pensiero per il quale è molto più importante l’impresa (privata) rispetto alla vita umana e al ruolo dello stato (che deve aiutare le imprese ma non intromettersi nei loro affari). Un pensiero che vede tutto quello che sarebbe diritto dei lavoratori (dalle retribuzioni, alla sicurezza, alla diminuzione dell’orario di lavoro, della fatica e dell’alienazione) solo un costo che può e deve essere tagliato altrimenti “siamo poco competitivi”.

Lo so. Sarò ripetitivo nelle mie “lamentele” ma la realtà è davanti ai nostri occhi. Noi esportiamo guerra e non democrazia (e perché poi la dovremmo esportare e a chi?). Le lavoratrici e i lavoratori hanno sempre meno diritti e continuano a infortunarsi, ad ammalarsi, a morire pur di portare a casa un salario spesso misero e insufficiente a sopravvivere.

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Giorgio Langella
Giorgio Langella è nato il 12 dicembre 1954 a Vicenza. Figlio e nipote di partigiani, ha vissuto l'infanzia tra Cosenza, Catanzaro e Trieste. Nel 1968 il padre Antonio, funzionario di banca, fu trasferito a Lima e lì trascorse l'adolescenza con la famiglia. Nell'ottobre del 1968 un colpo di stato instaurò un governo militare, rivoluzionario e progressista presieduto dal generale Juan Velasco Alvarado. La nazionalizzazione dei pozzi petroliferi (che erano sfruttati da aziende nordamericane), la legge di riforma agraria, la legge di riforma dell'industria, così come il devastante terremoto del maggio 1970, furono tappe fondamentali nella sua formazione umana, ideale e politica. Tornato in Italia, a Padova negli anni della contestazione si iscrisse alla sezione Portello del PCI seguendo una logica evoluzione delle proprie convinzioni ideali. È stato eletto nel consiglio provinciale di Vicenza nel 2002 con la lista del PdCI. È laureato in ingegneria elettronica e lavora nel settore informatico. Sposato e padre di due figlie oggi vive a Creazzo (Vicenza). Ha scritto per Vicenza Papers, la collana di VicenzaPiù, "Marlane Marzotto. Un silenzio soffocante" e ha curato "Quirino Traforti. Il partigiano dei lavoratori". Ha mantenuto i suoi ideali e la passione politica ed è ancora "ostinatamente e coerentemente un militante del PCI" di cui è segretario regionale del Veneto oltre che una cultore della musica e del bello.